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19/03/2016

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DEDICATA AI PAPÀ DI IERI

Clicca per Ingrandire Il rapporto intergenerazionale fa parte della letteratura psicopedagogica da sempre. Nella lirica che abbiamo deciso di pubblicare in questa giornata dedicata al “Papà” ci rientra a gamba tesa. Vibrante e allo stesso tempo tenera, la testimonianza appartiene a qualche generazione fa e mette in mostra un metodo che in molti, fra noi ‘vecchietti’, conosciamo abbondantemente, facendo parte anche del nostro passato, eppure nasconde tantissimo amore. In più racconta un uomo a noi vicino - materialmente e spiritualmente - di cui si sapeva tanto poco quanto niente.


PADRE MIO!

Oggi, cent’anni fa, nascevi, padre mio,
primo dei quattro figli di Vincenzo,
respirando l’aria salsa dell’estate.
In gioventù – tu stesso lo dicevi –
fosti un po’ scavezzacollo, sregolato:
frequenti cene con amici feste balli
bicchierate calci al vento (e tante fiamme
accese nei cuori delle donne).
Di studiare – nemmeno per ischerzo!
Tuo padre ti pagava il pedagogo
per insegnarti le maniere buone
i conti e l’abbiccì e quel maestro
- disonesto!, una seconda volta
lo pagavi perché dicesse le bugie,
perché dicesse che studiavi con profitto
e che ogni giorno facevi dei progressi.
“Né arte né parte” avevi (e forse ti vantavi)
e voglia poca assai di lavorare
(sebbene poi provasti più mestieri
e con fatica trasportasti a spalla
di arance e di limoni gravi gerle
per le scoscese terre intorno a Rodi).
Fosti soldato per due volte: la prima,
a Roma, a fare l’attendente e la seconda
- richiamato per la guerra, fosti mandato
a Derna ed a Tobruch (e, per fortuna,
col fucile non sparasti un solo colpo!).
Fu da soldato che comunque cominciasti
a maturare e con orgoglio e con caparbietà
prendesti in mano carta penna e calamaio
e scrivesti alla donna del momento
e certo alla tua mamma (del nobile casato
Campanozzi, ma pronta a digrignare i denti
per difendere noi nipoti nella strada).
E pure con i numeri – chi mai l’avrebbe detto!
prendesti confidenza, ti rivelasti bravo.
Quando ormai maturo, di anni trentasei,
decidesti di cambiare la tua vita, ti desti
- come si dice, una “calmata” ed una moglie,
scegliendo ed impalmando dei Coccia
l’Ernestina (giovinetta appena di vent’anni),
venuta da Cagnano al mar di Rodi,
e fosti – tutto sommato – un buon marito.
Come figlio – io, seppure sono padre
e potenziale nonno (dipende dai miei figli!),
ancora non lo so (e forse mai saprò)
che cosa dire, quale giudizio dare
pur vivendo intensamente i miei rimorsi
per non averti ben ricompensato.
Eri dolce, sì, ma pure, molte volte,
con me, tu fosti un poco duro, amaro,
e m’infliggesti punizioni esagerate:
tua figlia – mia sorella! – ti faceva le moine,
io ti facevo un po’ da servo e da garzone,
insieme con la mamma (che, orfana
del padre ancora in grembo, era per te
come la prima dei tuoi figli).
A modo tuo, però, od a quello dei tuoi tempi,
tu mi facesti da maestro e mi educasti
per la vita al bene all’onestà ai sacrifici.
Mi temprasti come uno spartano
con levatacce fatte nella notte, lunghe
scarpinate per i monti, le campagne
e i boschi di buona parte del Gargano,
a cercare legna da camino od a comprare
bestiame da macello nelle “masserie”.
Mi dicevi “studia! studia! Il mio mestiere
rende poco ed in compenso costa
grandissima fatica ed esistenza grama”.
E quando ritornavo a casa dalla scuola
con voti piuttosto insufficienti
(frequentavo le classi della Media),
per darmi una lezione, mi promuovevi,
lì seduta stante, “pecoraio” e mi mandavi
col pastore – col sole o con la pioggia.
E mi tenesti sempre al tuo servizio
come “aiuto-macellaio” in quell’angusto
e puzzolente mattatoio del paese,
umido e freddo perfino nell’estate,
a scannare bestie e bruciacchiare porci
che poi trasportavamo sulle spalle
lungo quella strada in gran salita.
Eppure, quanti dubbi, padre mio!
E quando t’ammalasti di tumore
e non potesti più parlare fino in fondo,
inorridito mi chiedevo (ed ora ancora
me lo chiedo assai turbato), se sia giusto
per un uomo, di morire in sofferenze atroci,
senza una terapia che l’allevii dal dolore.
Non avevamo nulla e nulla ci fu dato
dall’inclemente ed inumana “Sanità”,
per darti un po’ di requie dalle pene.
Nelle tue ore estreme – la Morte al capezzale
(a nulla essendo valsa quella corsa
in ambulanza, la corsa dell’ultima speranza),
ti vidi più sereno, più tranquillo
- d’una tranquillità da stoici, sovrumana.
E te ne andasti zitto zitto, senza un ciao,
senza un addio, un bacio, una carezza,
perché tutti dormivamo, infine, stanchi,
sulle dure sedie, mentre l’alba fredda
di quel giorno – il dieci di gennaio
del millenovecentottantaquattro, era lontana
ancora dal venire a luce.

Vincenzo Campobasso


(in DEDICHE ED EPICEDI)


 Redazione (foto leggerenotizie.it)

 

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