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30/04/2015

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IN ATTESA DEL 1° MAGGIO

Clicca per Ingrandire Gli effetti devastanti dell’ultima guerra mondiale misero a dura prova la maggior parte della popolazione garganica. Le famiglie provate da lutti e malattie diventarono ancora più povere e la classe operaia ancora più segnata dalla miseria. Molti genitori furono costretti ad affidare i propri figli a gestori artigianali e agricoli per garantire loro un pezzo di pane. I ragazzi venivano messi a disposizione delle maestranze per l’intera giornata, impediti di fatto a frequentare la scuola dell’obbligo. Gli scapaccioni erano consentiti ai superiori anche per qualche errore banale e talvolta utilizzati per placare i loro cattivi umori.

Apprendere un mestiere era un obbligo. L’apprendistato, per chi intraprendeva “l’arte della campagna”, consisteva nel pascolare le bestie ricevendo come retribuzione: il pane quotidiano, un litro di olio e un chilo di sale al mese, una forma di cacio a Natale (la grandezza a discrezione del padrone) e una piccola paghetta. I ragazzi erano maturi e consapevoli della situazione economica familiare tanto da risparmiare l’olio e il sale e riportare la quantità residua alle proprie case. I genitori pattuivano coi datori di lavoro: il salario, due giorni di riposo bimensile e la garanzia della festività del 1° Maggio.

I giovani lavoratori, oltre alla fatica del lavoro quotidiano, dovevano sottostare agli ordini degli anziani garzoni: prelevare l’acqua da pozzi e cisterne, raccogliere la legna per il fuoco serale, lavare la pentola e il piatto (unico per tutti), attendere che gli anziani iniziassero l’assaggio dei pasti. Rispetto e obbedienza verso l’anziano e il padrone erano doveri indiscutibili. Il Segno della Croce era l’unica preghiera che conoscevano per ringraziare il Signore dopo aver portato la mandria nella stalla ogni qualvolta le intemperie incombevano in aperta campagna e quando le bestie spaventate da vento, tuoni e fulmini, non erano più controllabili e prendevano direzioni diverse.

La festa del 1° Maggio, in tale contesto, diventava il mezzo per onorare le prestazioni di tutti i lavoratori, per mostrare il coraggio represso che si sprigionava attraverso lo sfogo collettivo ed era rivalsa di tutte le ingiustizie accumulate durante l’anno. I preparativi iniziavano alcuni giorni prima della festa. I ragazzi e le donne raccoglievano nei campi fiori rossi e bianchi per poterne poi utilizzare i petali. La mattina del Primo Maggio la popolazione si radunava nella piazza davanti alla Camera del Lavoro per formare il corteo. I più piccoli in prima fila, vestiti di camicie rosse e in mano le bandierine con lo stemma della falce e del martello. Seguivano le donne col capo ornato di ghirlande rosse. Alcune sostenevano grossi cesti pieni di petali di rose e papaveri lanciati per terra al passaggio di rappresentanti sindacali e di partito.

Gli esponenti di spicco portavano all’occhiello il garofano rosso e col megafono pronunciavano frasi di rivendicazioni oppure davano inizio all’inno del partito: “Avanti popolo alla riscossa, bandiera rossa, trionferà” mentre tutte le bandiere sventolavano. Gli uomini si accodavano coi propri mezzi di lavoro: biciclette ornate di fiori rossi, asini e muli ricoperti di mantelli rossi, tutti allineati, che non mancavano di ragliare per lo spavento non appena la banda attaccava. Il corteo, in prossimità dell’abitazione di qualche benestante aumentava la tonalità degli inni provocatori e chiaramente si udivano versi come: “Mangiatillo e sugatillo il limone, lo sappiamo che non ti piace ma oggi devi farti capace che il limone devi mangiare”, proprio perché il primo maggio era l’unico giorno in cui i padroni si sostituivano ai loro garzoni per i fabbisogni della campagna.

L’altro corteo, più contenuto, della Democrazia Cristiana partiva dalla parte opposta ed era composto da impiegati, professionisti e praticanti religiosi con le bandiere bianche marchiate dallo stemma dello scudo crociato. Meno numeroso dell’altro si presentava però più ricco di mezzi. Al seguito, infatti, i primi trattori della storia trainavano rimorchi da cui donne lanciavano petali di rose bianche e di margherite; i cavalli con criniere intrecciate e ricoperti da mantelli bianchi sembravano essere stati preparati come a partecipare ad antichi rodei medievali. Scalpitavano storditi dal canto di “ oh bianco fiore simbolo d’amore” o dagli applausi ricevuti dall’esponente del partito in risposta alle battute pronunciate al megafono. I due cortei si svolgevano nel pieno rispetto reciproco, per ordine e compostezza. Si scioglievano dopo i comizi tenuti dai rispettivi rappresentanti politici e sindacali, e dopo aver fissato l’appuntamento nel pomeriggio per la scampagnata organizzata in località diverse.

Nei luoghi prefissati, in aperta campagna, era un vero assalto: frittate, formaggi, lampascioni al forno, salsicce, taralli e ciambelle erano letteralmente divorati mentre il vinello aspro nostrano passava nei fiaschi di mano in mano, liberando risate ma anche frasi e battute di provocazione verso maestranze e padroni. Per l’occasione si organizzavano diverse attività agonistiche: tiro alla fune, corsa nei sacchi e il noto palo della cuccagna: l’uno sormontato da prodotti alimentari legati dallo stendardo rosso per il Partito Comunista e l’altro dallo stendardo bianco per il partito della Democrazia Cristiana. La corsa degli asini era lo spettacolo più divertente. Gli animali non sempre ubbidivano al fantino, si fermavano di colpo disarcionandolo oppure prendevano direzioni diverse.

Si organizzava anche una gara ciclistica con la partecipazione di corridori provenienti da regioni limitrofe e la strada faceva da vera trincea ai manifestanti dei due partiti. Prima dell’arrivo dei corridori era il direttore di gara, affacciato allo sportello della Balilla, unica macchina al seguito, che dettagliava al megafono l’andamento della corsa. Quando annunciava la fuga di qualche corridore nostrano, il boato di gioia s’innalzava nei pressi dell’arrivo, la folla si ammucchiava velocemente lasciando pochissimo spazio al passaggio dell’autovettura. I nostri atleti si allenavano dopo aver zappato l’orto, unica loro palestra, sostenuti da un’alimentazione fatta di “pane, scorza e mollica”. Spesso, per partecipare alle gare in altri paesi, si partiva in bici al mattino presto, qualche volta si vinceva e poi si faceva ritorno sempre in bici.

Questi “atleti” erano amati da tutti, non tanto per il valore delle vittorie ma per come si allenavano, senza trascurare il duro lavoro quotidiano. La vittoria dei paesani sprigionava la gioia di tutti i presenti. Ma abbracci e brindisi annientavano completamente le rivalità, tanto che “bianco e rosso”, colori che nel dopoguerra avevano annientato il nero, si fondevano in un unico colore. La vittoria esaltava il valore umano albergante in ogni cittadino garganico, rappresentava il riscatto della situazione sociale e un forte stimolo a credere nelle proprie capacità, giacché molti, consapevoli che avrebbero abbandonato la propria terra natia, erano ugualmente consapevoli di dover confrontarsi con ostacoli e rivali di sicuro presenti lungo le strade del mondo.

Attualmente il 1° Maggio si svolge in modo diverso. La piazza della Capitale italiana è l’unico luogo dove i lavoratori arrivano da ogni parte d’Italia stremati dai lunghi viaggi effettuati in pullman o in treno messi a disposizione dai rappresentanti politici e sindacali per ascoltare comizi confezionati con belle parole, frasi e verbi ben coniugati e tantissime promesse, e si concludono col suono assordante di concerti rock. Una volta, la giornata del Primo Maggio aveva altra valenza. Nel Gargano era una sorta di embrione della Libertà che sbocciava con la Partecipazione. In primo luogo, quella degli organizzatori che, coinvolgendo i cittadini a mettere a disposizione il proprio tempo libero, hanno saputo sempre preparare manifestazioni senza incidenti.

Ma anche quella delle donne che, nonostante la riservatezza, nota caratteristica di quei tempi, accompagnavano senza vergogna mariti e figli al grido: “1° Maggio, Festa dei Lavoratori”; quella dei ragazzi temprati dallo spirito di sacrificio che si sono riscattati raggiungendo poi traguardi ambiti in Italia e nel mondo, nonostante analfabetismo e povertà; quella dei tanti protagonisti sportivi nostrani passati nel dimenticatoio; quella di coloro i quali hanno sfilato per le strade con entusiasmo pacifico e onorato e arricchito “quel dì di festa”. A costoro va il merito di aver segnato una pagina della nostra Storia.

Antonio Monte


 Redazione (foto formiche.net)

 

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