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02/04/2013

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KALENA ALL”ALBA DELLE LEGGENDE

Clicca per Ingrandire «Fratres, labor est» (Fratelli, il lavoro è stato fatto). Elìas depone la mazzetta sul muro di pietre in costruzione.
«Te Deum laudamus» (Noi Ti lodiamo, Dio). Basilèios e Paconìdes recitano in coro, dando uno sguardo soddisfatto agli ultimi pietroni messi a dimora.

L’ombra del ramo d’olivo, infisso nel terreno, indica il tempo della ‘Vespera’, la preghiera della sera. Il silenzio avvolge la Valle degli Olivi, rotto a tratti dal frinire delle cicale, che discende dalle pinete che ammantano i declivi, e dall’eco lontana dei marosi che frangono sulle scogliere. Il crepuscolo di maggio diffonde pastelli luminosi. Venere dardeggia splendente, solitaria, nel cielo terso di ponente.

«Fratres, Pater panem nostrum quotidianum da nobis hodie» (Fratelli, il Padre ci da oggi il nostro pane quotidiano). Nèilos compare dalla direzione dell’orto tenendo sulla schiena un sacco che depone sulla pietraia che circonda il pozzo. I quattro monaci, barbe e capelli lunghi, volti bruniti, tuniche scure cenciose lunghe fino ai piedi, scalzi, attraversano il varco, rivolto verso oriente, lasciato fra le pareti della cappellina che stanno erigendo. Sollevando la tunica fin sopra le ginocchia, si prostrano di fronte all’immagine lignea di Maria poggiata sull’altare in pietra. Alzano le braccia al cielo, pregano. Le litanie si fondono col fruscio degli olivi, animati dalla brezza.

«Ave, maris stella…» (Salve, stella del mare…). Un mormorio indistinto, che man mano diventa una cantilena, proviene dalla direzione del mare, si mescola con le litanie dei monaci. Michel, Gabriel e Raphaël, coperti di cenci, scalzi, ciascuno con un ramo d’olivo come bastone e una bisaccia a tracolla, sbucano nello spiazzaletto. Bénédicte e Célestine, il manto nero, li seguono docilmente, condotte al guinzaglio, brucando di tanto in tanto un ciuffo d’erba. I tre si fermano, si guardano attorno, spengono la cantilena, scambiano qualche parola.

Lo spiazzaletto si apre nel folto dell’oliveto, a ridosso di una formazione calcarea che si eleva per una decina di piedi. La parete rocciosa appare incisa da una serie di grotticelle, tutte a dimensione umana tranne una, più ampia. Di fronte al grottone un masso levigato, con intorno alcuni massi più piccoli, fa pensare a un tavolo. Il secchio appoggiato su una pietraia quadrata rivela la presenza di un pozzo. Il ciuffo di bietole che fuoriesce dal sacco deposto accanto al secchio evoca orti in vicinanza. Una fascina di legna, predisposta su una coltre di cenere fra tavolo e pozzo, è pronta per essere attizzata. A una trentina di piedi di distanza, fra mucchi di pietre, si alzano le pareti di un manufatto in costruzione. Dinanzi ad esso un olivo maestoso, superbo, precede una corte di olivi secolari. I pellegrini avvertono le litanie dei monaci provenienti dall’interno del manufatto. Le avvertono anche le due caprette, che si uniscono al coro, belando. Elìas esce dal vano della cappella, scorge il gruppetto.

«Avè Dominì!» (Salve, Signori!) I tre salutano all’unisono, con accento palesemente straniero.
«Ave Domini!» Elìas risponde, rendendosi conto che i tre provengono da lontano e interloquire non è tanto semplice. Chiede amichevolmente: «Utrèya?» (Sempre più oltre?)
«Utrèya! Susèya!» (Sempre più oltre! Sempre più su! - saluto tipico dei pellegrini). I tre rispondono in coro, rinfrancati.

Il gruppo in qualche modo riesce a capirsi. I pellegrini vengono dal nord della Francia, dalla Normandia. Parlano una lingua incomprensibile ai monaci. I monaci, originari della Grecia, parlano dialetti greci. Un po’ di greco, fortunatamente, lo conosce anche Michel, avendo pescato per qualche tempo su un battello di pescatori greci. I pellegrini sono invitati a trascorrere la nottata insieme coi monaci, possono riposare nel grottone, il ‘cenobio’ dei monaci, che riposeranno nelle grotticelle, le loro ‘celle’ solitarie. ‘Giacitoi’ di paglia possono recuperarsi per tutti.

L’ultimo chiarore del crepuscolo sfuma all’orizzonte. Il cielo della notte di maggio, cobalto, limpido, terso, si anima di brillanti: Venere testimonia radiosa la sua vicinanza al Sole, Saturno sfavilla alto nel cielo, Marte mostra fiero la sua albedo rosseggiante. La cena, consumata in silenzio intorno al tavolo in pietra, è frugale: verdure dell’orto, latte fresco di Bénédicte e Célestine, pane secco di frumento, acqua dal pozzo.

«Fratres, cena est.» (Fratelli, la cena è terminata.) Elias si alza, si avvia verso l’oliveto.

La ‘recreatio’ (ricreazione) dei monaci è una passeggiata fra gli olivi, che induce scambi di esperienze, riflessioni comuni.

Nella Valle degli Olivi non v’è luce alcuna che non sia di stelle. Il planisfero si distende trasparente, trapunto di brillanti, fino all’ultimo orizzonte. Il pulviscolo della Via Lattea diffonde i suoi misteri. Né c’è suono alcuno, se non l’eco dei marosi. Il pellegrinaggio di Michel, Gabriel e Raphaël è di espiazione. Desiderano fare penitenze nei luoghi santi dei Cristiani, desiderano arrivare a pregare sul sepolcro di Cristo in Terra Santa. Hanno donato i loro averi alla Chiesa e sono partiti. Sono in viaggio da più di un anno. Si sono conosciuti a Mont Saint-Michel, la grotta sacra della Normandia, la loro terra. Hanno deciso di continuare il pellegrinaggio insieme perché non può essere un caso che si siano incontrati e si chiamino come si chiamano, come i tre arcangeli. Hanno seguito il percorso dello Chèmin Français (Via Francigena): Reims, Lausanne, Pavia, Siena, Roma…

Avrebbero desiderato passare anche per Venezia, dove stanno edificando una grande basilica in onore di Saint Marc, ma ci hanno rinunciato. Hanno pregato sulle tombe di Pietro e Paolo. Lì hanno conosciuto Cristòfaros, monaco eremita delle Tremiti, anziano, ansioso di pregare sulle tombe dei due martiri protocristiani prima di morire. Cristòfaros ha parlato della cappella di Santa Maria del Mare a San Nicola, del profondo culto mariano alle Tremiti, degli eremiti che vi espiano, del temuto avvento dei Benedettini di Montecassino e li ha indotti alla deviazione per le Tremiti, che comunque non sono lontanissime dalla grotta di Saint Michel sul Monte Gargano, che loro intendono visitare. Intendono tanto più visitarla in quanto sono arrivate notizie di incursioni devastanti dei Saraceni lungo le zone costiere, senza contare le dispute fra Longobardi e Bizantini, che continuano dalla morte di Charlemagne (Carlo Magno).

Non esistono davvero esseri umani appagati dalla vita spirituale, che non siano monaci o pellegrini! Sono andati alle Tremiti salpando da Termì (Termoli), a ridosso di un promontorio ornato di mura; e sono tornati sulla terraferma a Ròud (Rodi Garganico) con una barca di pescatori. A San Nicola hanno saputo della cappella in costruzione nella Valle degli Olivi. Bénédicte e Célestine sono delle Tremiti, sono un dono di Cristòfaros. Adesso vogliono continuare il pellegrinaggio visitando le Abazie del Monte Sacro vicino Matinùm (Mattinata). Durante il cammino hanno fatto sosta presso oratori e romitori disseminati lungo il percorso. Non hanno mai incontrato un posto con così poca acqua come qui.

I monaci li ascoltano incantati. Loro, monaci basiliani emigrati in Salento a seguito dei movimenti iconoclastici, non hanno mai avuto tante notizie del mondo! Il gruppo giunge presso l’olivo maestoso, svettante per una quindicina di piedi e oltre. La brezza, per un attimo assente, viene ora lieve da terra verso il mare, e porta flagranze miste di pini, lentischi, felci… I pellegrini alzano lo sguardo verso i rami fronzuti, uno sguardo rapito. Si accoccolano in terra. I monaci si accoccolano insieme con loro.

«È èlaia è kalé!» (Che splendido olivo!) esclama Michel, estasiato. Tutti restano in ammirazione, in silenzio.
«Carles li reis, nostre emperere magnes…» (Carlo il re, nostro grande imperatore… - stralcio da “La Chanson de Roland” in lingua ‘d’oil’) inizia a canticchiare Gabriel sottovoce. Raphaël gli si aggiunge subito, Michel pure.

I tre si alzano, iniziano a muovere passi di danza al ritmo del canto. Michel si avvicina al tronco dell’olivo, tenta di abbracciarlo. Raphaël sorride, cerca di aiutare Michel ad abbracciare il tronco, prendendogli una mano; Raphaël pure sorride e si affretta a chiudere il cerchio intorno al tronco. Continuano a canticchiare cingendo il tronco, una guancia appoggiata su di esso.

«Misereàtur nobis…» (Abbi compassione di noi…) La ‘compieta’, preghiera che completa la giornata, è celebrata fra le pareti della cappella, a cielo aperto. La Luna, ormai alta nel cielo, sorride. Il chiarore del plenilunio ammanta la Valle degli Olivi. I monaci si ritirano nelle loro celle. I pellegrini restano nella cappella, distesi proni in terra, il capo verso l’altare, le braccia in croce, gli occhi chiusi, le bocche oranti senza voce.

La prima preghiera del giorno in attesa del sole, l’inno a Cristo, vero Sole, è recitata dal gruppo riunito. Il cielo è luminoso, terso nell’aurora del mattino di maggio, l’aria frizzante, raggi di sole, sfrecciando sopra il profilo del promontorio, mitigano la frescura della notte, una brezza leggera scende dalle alture. Il pasto del mattino è consumato rapidamente: pane duro bagnato nell’acqua tiepida. Pellegrini e capre, le bisacce rifornite di provviste, si apprestano a riprendere il loro cammino.

«Frater…»
«Frater…»

Pellegrini e monaci si abbracciano. I pellegrini si avviano in direzione di Vist (Vieste). Giunti nei pressi dell’olivo maestoso, alzano lo sguardo verso la chioma.

«È kalè èlaia!» (Lo splendido olivo!) esclama Michel.
«Kalé!» ripetono più volte i tre, mentre si allontanano.
«Kalón!» (Bello, femminile, riferito all’olivo – Bello, neutro, riferito al tutto).

I pellegrini scompaiono fra gli olivi.

«Utrèya! Susèya!» si ode giungere da lontano, sulle ali della brezza.

I monaci si dirigono verso la cappella: il ramo d’olivo indica il tempo della ‘lectio divina’ (lezione divina, letture della pratica monastica).

***

Correva, quel giorno, l’anno del Signore 872. La Valle degli Olivi oggi è la Piana di Kàlena.

Paolo Labombarda


Nb. Nella foto di Nicola Maggiano, una Abazia sotto la neve. Quando la libereremo?

 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 03/04/2013 -- 20:30:20 -- Teresa

Scrivere un racconto eziologico che ricolleghi il nome Kalena all’etimo καλόν ci trova tutti concordi. Liberare Kalena vuol dire restituire bellezza a Peschici. Affiancare la creatività narrativa alla forza della mobilitazione è il modo migliore per dare senso all’arte e non confinarla in una sfera di inerte separatezza. Il tuo “Kalena – All’alba delle leggende” e “Il segreto di Kalena” di Alfonso D’Errico richiamano alla vita un passato che non può e non deve cadere nell’oblio. L’etimo aramaico della parola abazia (da abbā, “padre”) contiene un’idea implicita di trasmissione ininterrotta attraverso le generazioni: Kalena deve continuare a parlare anche ai giovani, anche ai figli di un passato da conoscere e non solo da rievocare nostalgicamente o, peggio, malinconicamente. Liberiamo Kalena

-- 17/04/2013 -- 07:36:37 -- Paolo

il lemma aramaico 'abba', Teresa, evoca altri stralci della nostra cultura: - l'aramaico è la lingua parlata da Gesù (Yeshua'): Yeshua' chiamava 'abba' il Suo padre putativo; - i primi patriarchi della Chiesa Cristiana in oriente erano chiamati 'Abba'; - il lemma 'Papa' deriva da 'abba'; ...

 
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