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01/04/2013

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IL GIOVANE TORO (U ciavàrr)

Clicca per Ingrandire Era il dopoguerra e, nel paesino dalle case bianche, la recessione imperava: pareva che la guerra non fosse ancora finita, tanto era difficile procurarsi di che sfamarsi, tanto era difficile vendere, per chi sperava di vendere quel poco che poteva offrire. Negli scaffali dei negozi poteva essere desunto dalla polvere che si accumulava sui prodotti quanti di questi venivano venduti ed in quanto tempo. Con una unica, parziale eccezione per i pescivendoli (purché si parlasse di pesce minuto, di poco prezzo), nessun rivenditore poteva vantarsi di aver avuto una giornata positiva, tale, cioè, che avesse intascato almeno il capitale investito.

Nelle condizioni peggiori di tutti versavano, purtroppo, ed ovviamente, i macellai. La carne, per le povere mense del paesino (ma non solamente di quello, a quei tempi), era ancora un lusso che, non potutosi permettere durante la guerra, ancora non era possibile permettersi in tempi di riacquistata pace. Pareva che le macellerie rivestissero ciascuna il drappo nero della miseria e del lutto, anche se tutte cercavano, specialmente durante le vacanze natalizie pasquali e patronali, di addobbare, con variopinte violacciocche od altri fiori disponibili, le povere carni di agnelli e capretti esposti, al di fuori dei locali, alla pubblica vendita. Era una vera pena. Per tutti!

Non so a chi, non so come, a qualcuno venne un barlume alla mente: perché non associarsi? Detto, fatto. Si ebbero incontri, si stabilirono regole: alcune macellerie sarebbero rimaste chiuse, altre si sarebbero divise i compiti: una avrebbe venduto quarti di bovini, un’altra di bovini e carni ovine, una ancora maiale, un’altra solo parti interne o estremità, eccetera. E, mentre una squadra avrebbe provveduto alle vendite, un’altra si sarebbe incaricata dell’acquisto degli animali da macello ed della loro macellazione. A ciascun fine-settimana si tiravano le somme, si chiudeva la relativa contabilità, si toglievano le spese, si dividevano gli utili. A parte qualche inevitabile sospetto (erano sempre stati sospettosi, tra di loro, quei macellai, per tante ragioni diverse che non è qui il caso di trattare), i risultati si vedevano. Pochi, ma positivi, per tutti.

Parte, un giorno, la squadra degli addetti agli acquisti e, dalle masserie dei boschi, si ritira, oltre che con altre bestie, con un ciavàrr, cioè, un giovane toro sui due anni, alto, slanciato, con le corna ormai possenti grigio-nere, la coda concolore, il resto del pelame con pari sfumatura sul fondo grigio caratteristico della razza podolica. Che bestia! In una plaza de toros madrilena non avrebbe affatto sfigurato: pareva tagliato per la corrida. E pareva tagliato per dar filo da torcere se non proprio per uccidere, al fine di difendere il proprio diritto alla vita!

Si era sotto le feste patronali di uno dei primi anni cinquanta. Dalla stalla, nella quale non era stato facile rinchiuderla due giorni prima, la bestia, assicurata da più di una fune, il primo pomeriggio della mattanza fu menata al macello, un vecchio macello che, alcuni decenni dopo, sarebbe stato trasformato in deposito di frutta ed ortaggi. Lo spettacolo di questa mena avrebbe tolto punti alle corse impazzite dei tori sivigliani, che seminano terrore, feriti e, qualche volta, morti, per le strade cittadine. Era un evento straordinario, un evento unico, che faceva mantenere il fiato sospeso ed accapponare la pelle.

L’incedere, comunque regale, possente, non era solo contrastato, era risolutamente combattuto. Ci si muoveva - può parer esagerato dirlo - a millimetri! Ogni momento era un fermarsi, uno sbuffare, un impuntare le zampe, un tentativo di slancio, di corsa verso la libertà, sempre bloccata sul nascere, poiché una fune, legata alla zampa anteriore destra, subito sopra lo zoccolo, tenuta aderente al corpo con un’altra corda legata intorno alla cassa toracica dopo il garrese, veniva immediatamente tirata, causando la caduta del toro. La vittima sentiva, sapeva di essere vittima! Ma, di andare ad immolare la propria vita in quell’angusto locale non era quello che sicuramente si era mai auspicato durante tutta la propria esistenza. Forse sognava di invecchiare tra la macchia ed i boschi, dopo aver dato per anni il proprio seme a perpetuare la razza; forse – morire per morire – avrebbe preferito morire in un’arena. Chissà? Non lo sapremo mai. Così come non lo avremmo saputo se lo avessimo ipotizzato e gli avessimo rivolto la domanda in quell’antivigilia del 2 Luglio di quell’anno.

Nonostante che all’epoca quella strada fosse disabitata e, quindi, solitaria, molta gente fu attirata dal frenetico vociare che se ne faceva, dai commenti che se ne portavano in giro. La folla non ammansiva di certo la bestia. E, prima di riuscire a farla entrare nel macello, passarono lunghe mezz’ore. Ciò fatto, il povero ‘ciavàrr’ fu legato alla colonna semincassata nel muro, con le corna ben vicine alla stessa, così che non avesse alcuna possibilità di movimento: riuscire ad introdurre la punta del coltello subito dopo le corna, all’attacco della nuca, era già un’impresa a bestia ferma, figurarsi se, invece, la bestia fosse stata in condizione di ruotare la testa!

Quando tutto fu pronto, la porta del macello chiusa, i pochissimi autorizzati messi in relativa sicurezza, il socio destinato all’esecuzione del rituale prese il coltello, si avvicinò, ne puntò la punta nel posto che conosceva bene per tanta esperienza acquisita e dette l’affondo. La punta della lama penetrò, ma ‘u ciavàrr’ non parve minimamente molestato. Anzi, in un supremo impeto di forze, riuscì a far allentare le funi ed il suo carnefice si trovò a mal partito: perse la presa del coltello e si trovò ad oltre mezzo metro dalla vittima. Anche gli altri, colti di sorpresa, lasciarono le funi ed il giovane toro si trovò libero di fuggire, infilando il vano della porta che, nel frattempo, era stata aperta da chi aveva ritenuto più igienico guadagnare l’uscita anziché rischiare cornate al chiuso.

La bestia, coltello infilzato, funi striscianti, prese a scendere lungo la costa, in diagonale, portandosi prima sopra una galleria, lato ovest, poi dirigendosi oltre, passando nella parte sud della ferrovia. Tutti i macellai della squadra, con relativi figli-aiutanti, frenetici, a correre, con altre funi pronte a cappio, per poter raggiungere e catturare il povero ciavàrr insanguinato. Qualcuno, percorrendo la strada, allora sterrata, bianca, polverosa, riuscì a pararsi davanti alla giovane bestia, che si arrestò giusto quel tanto d’indecisione sorta su quale altra via alternativa di fuga indirizzare la propria scelta. Attimo fatale! Fu recuperata la fune fissata alla zampa, fu afferrata ben stretta una di quelle legate alla sua testa, ne fu aggiunta un’altra, lo si riebbe subito sotto controllo. La corsa non era stata lunga, ma era tanta quanta le sue forze gli avevano potuto permettere! Non si faticò poco per rimenarlo al macello, ma, alla fine, tra i battimani degli astanti, specialmente - beata innocenza! - dei vari ragazzi e ragazzini, l’impresa andò in porto.

Questa volta, il coltello (che, incastrato com’era, non si era minimamente mosso dalla nuca del giovane toro), fu portato decisamente più in profondità ed il midollo fu debitamente reciso. Stramazzato a terra, fu poi finito secondo le consuete procedure, fino a quando non fu ridotto in quarti ancora tremanti e fumanti, pronti per le macellerie e per il palato di chi, ignaro di tutta la tragedia, avrebbe potuto accaparrarsene una razione.

Rannicchiato nell’angolo destro, sul lato della porta, un ragazzo, non visto, pianse: poche, significative lacrime, ben idonee, da sole, ad esprimere la pietà che quel giovane ciavàrr (giovane quasi come lui, del resto, se dobbiamo ritenere che ciavàrr possa derivare dallo spagnolo chaval – da pronunciare ciaval - che significa, per l’appunto, giovane) gli aveva fatto sorgere nel cuore! E sicuramente fu anche l’unico a non voler mangiare di quelle carni, che dovevano essere semplicemente squisite, a giudicare da come gli altri congiunti le gustavano, arrostite alla brace!


U CIAVARR

‘A uèrr jév’ f’nút’ da nu bbell póch’ d’ann ma ntu pajəsùcc’ dī chès’ bbianch’ i cr’st’jèn’ ancόr’ no nc’ putèv’n’ r’p’gghjà: ss’m’gghjèv’’ che ‘a uèrr no ngnév’ f’nút’ ancόr’, p’ qquant jév’ d’ffìc’l’ prucuràr’c’ da maggnà, p’ qquant jév’ d’ffìc’l’ vènn p’ cch’ t’név’ ‘a sp’ranz d’ vènn cùddu pόch’ che t’név’ da vènn. Nti stíp’ di putéch’ c’ putév’ capì dalla pòv’l’ che c’ ccatastèv’ sόp’ i cόs’, quant n’ jèv’n’ v’nnút’ e nta qquànta tèmp. Súl’ i p’ssciaiúl’ v’nnèv’n’ nu pόch’, ma no ngnèv’ pèssc’ di príma qual’tà; ddàv’ti put’chèr’, quann c’ facèv’n’ i cùnt, ‘a sér’, c’ n’ ddunàv’n’ che no nnavèv’na p’gghjèt’ manch’ u cap’tèl’. Pèjə d’ tùtt stèv’n’ i uuccír’: ‘a carn’, che no nc’ jév’ p’tút’ maggnà quann c’ stév’ ‘a uèrr, jév’ ancόr’ nu lùss che i pajəsèn’ (e no nzulamènt’ lόr’) no nc’ putèv’n’ p’rmètt manch’ mò che c’ stév’ ‘a pèc’. Ss’m’gghjèv’ che tùtt i chjànch’ stèss’n’ cupèrt dalla cupèrt dā m’sèr’jə e ddu lùtt, púr’ se i chjanchír’, sp’cialmènt ë fèst’, m’ttèv’n’ i sciúr’ nfacc’ i ggnèll e i crapìtt, p’ tt’rà l’attenziόn’. Jév’ na pén’, p’ ttùtt quant!

Ma nu júrn, però, nchèp’ ä qqual’chedún’ jè vv’nút’ na bbella penzèt’: d’ fa na società tra i uuccír’. N’ jèv’n’ sétt, ä quìddi tèmp’! C’ ncuntràv’n’, parlàv’n’ e pparlàv’n’ ma no nc’ m’ttèv’n’ mèjə d’accòrd. Alla fín’, pù, i cόs’ c’ sô ggiustèt’ e ‘a “società” à pp’tút’ ccum’nzà ä ffunziunà. Ănna chjús’ quàl’che pputèch’ e c’ sònn spartút’ i mpègn’: na part p’nzèv’ ä vènn, n’av’ta part ä ccattà i n’mèl’ da ccíd’. Jèv’n’ ä Mmònt, jèv’n’ ä Ccagnèn’, jèv’n’ ä Ccarpín’, jèv’n’ da qquà e da ddà. Nu júrn, sòtt i fèst’ dā Madonn, vann ntu vòsch’ d’ Sand’l’càndr e cciarr’tìr’n’ p’ pparìcchjə gn’llún’ e magghjatìdd, na vacch’ e nnu ciavàrr. Ä rruuà ä Rrόd’ c’ sò rruuèt’, ma ä ffa trascì nta stadd u ciavàrr jè stèt’ nu póch’ cchjù d’ffìc’l’ che far’c’ trascì gn’llún’ e magghjatìdd, púr’ se cc’ stév’ ‘a vacch’ che l’ facév’ cumpaggnìjə. Ancόr’ cchjù d’ffìc’l’ avéva jèss quann l’avèv’na caccià p’ ppurtàr’l’ ö macèll, senz ‘a cumpaggnìjə dā vacch’!

U ciavàrr jév’ ggiòv’n’, t’név’ sulamènt nu pèra d’ann, ma jév’ jav’t’ cόm’ na muntàggn, pī cùrn lùngh’ e pp’ntút’, ‘a cόd’ e i píl’ du mant grìgg’ e nnír’. Se u purtàv’n’ alla Spaggn’ p’ ccumbàtt nti corríd’ o p’ ffujì ssciòv’t’ pī strèt’, ciavéva fa propjə na bbella f’júr’. Ma jìss, puv’rèdd, jév’ d’st’nèt’ ö macèll. E d’ jì mmurì ntu macèll d’ Rόd’, pròpjə no mparév’ che t’név’ n’ssciúna nt’nziόn’: e, p’ ttùtt i còrd che t’név’ ttacchèt’ (jún’ ö péd’ d’rìtt, sόp u zzòcch’l’, che pù passèv’ sòtt ‘a trìpp nta nnàvta còrda ttacchèt’ attùrn attùrn addrèt’ i spadd p’ ffar’lu cadè, se cc’ m’ttév’ ä ffujì), p’ pputèr’l’ purtà fin’ ö macèll c’ jè vv’lút’ nu mùnn d’ tèmp! Pόch’ pass alla vòv’t’, pā pajúra ncòdd, i curjús’ che c’ vvuc’nàv’n’ pī llucch’ di cr’jatúr’, nzòmm, nu spettacuəl’, púr’ se jjèv’ nu spettacuəl’ crudél’! U ciavàrr ass’m’gghjèv’ cū sapév’ addόv’ u stèv’n’ purtànn, ss’m’gghjèv’ che sapév’ che avéva jì mmurì! E ffòrs, murì p’ mmurì, avèssa pr’f’rút’ jì ccumbàtt nta na corríd’: fors, prím’ d’ jèss accìs’ putèv’ púr’ ncurnà ä qqual’che ttorér’, no?

Mméc’, ddùm’n’ che u t’nèv’n’ ncat’nèt’, nu pòch’ alla vòv’t’ c’ l’ănna fatt ä rruuà ö macèll, ä ffar’lu trascì, ä ttaccar’l’ alla ch’lònn, pā chèpa stretta strett ö múr’, p’ nno nfàr’lu mόv’. U uuccér’ cchjù pprat’ch’ ciauucín’ pū curtèdd alla chèp’ du ciavarr, pònt ‘a pònt nta nόc’ du còdd, nzacch’ e u ciavàrr, mméc’ d’ cadè, p’ nna bbòtt d’ grín’ r’jèssc’ ä ll’bberàr’c’ e ä sscì dō macèll che jèv’ rumàst’ pā porta grapètt dόp’ che qual’chedún’ c’ n’ jév’ f’jút’ dafόr’ pā pajúr’ ch’avéva p’gghjèt’. U ciavàrr nnànz’, p’ ttùtt u curtèdd f’cchèt’ dd’rét’ i cúrn’, i chjanchír’ p’ ttùtt i figghjə apprèss. ‘A bbèstjə c’ mén’ abbassc’ vèrs i mùrg’, pù vèrs ‘a gallerìjə d’ punènt, pass ā queddàv’ta vann dā ferrovìjə, c’ fèrm nu mumènt no nzapènn quàlla strèta p’gghjà. Ä stu pùnt, quìdd che fujèv’n’ pā strèta bbianch’ r’jèssc’n’ ä tagghjà ‘a strèt’ ö ciavàrr e, ntu mumènt dā d’strazziόn’ d’ cùst, ănna p’tút’ mpatrunìr’c’ nav’ta vòvt dā còrd e p’ ttànta fatìjə l’ănna purtèt’ nàv’ta vòvt ntu macèll. Stavòv’t’ jè bbastèt’ nzaccà cchjù ddaìntr u curtèdd che no ngnèv’ cadút’, p’ ttagghjà u nèr’v’ e u pòv’r’ ciavàrr à ppèrs tùtt i fòrz che l’ jèv’n’ rumàst. Ä stu pùnt, tùtt jè gghjút’ nnanz cόm’ ä ssèmp: ccìs’, luuèt’ u cor’jə, sduuachèt’, squartèt’, carr’jèt’ ë uucciarìjə i carn che tr’màv’n’ ancόr’.

Ccucculèt’ nta na zènn du macèll, nu uaggliόn’ jév’ rumàst ä uuardà, p’ dd’ùcchjə chjín’ d’ lagr’m’ che sc’ggnèv’n’ pā facc’ e ll’ cadèv’n’ ncòdd ä nfonn ‘a camísc’ cόm’ se, v’vènn da na cannèdd, ncòdd l’ fòss cadút’ na sciumèra d’àqquə.

Enzo Campobasso



 Redazione (foto: torosenelmundo.com)

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 03/04/2013 -- 22:20:51 -- Paolo

"Rannicchiato nell’angolo destro, sul lato della porta, un ragazzo, non visto, pianse" Splendido! (non riesco a ritrovare la stessa emozione nella versione dialettale)

-- 03/04/2013 -- 22:54:22 -- vincenzo

L'emozione c'è; può essere solo diversa. Non è facile sentirla raffrontando le descrizioni. "Accoccolato (rannicchiato) in un angolo del macello, un ragazzo rimase a guardare, con gli occhi pieni di lacrime che scendevano per il volto e gli cadevano addosso a bagnare la camicia, come se, bevendo da un rubinetto, addosso gli fosse caduta una fiumana d'acqua". Va meglio?

 
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