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  L'ARTICOLO

01/10/2012

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TI CHIAMERÒ ÀLEXA

Clicca per Ingrandire Aveva da poco superato trent’anni, Luigino, e già da un po’ di tempo meditava di farla finita. Era deluso della vita ma, innanzitutto, si sentiva deluso dalla moglie, da quel matrimonio fatto - per quanto ne sapeva lui - per amore. Un amore che avrebbe dovuto estinguere la sua sete, un amore che avrebbe dovuto placare la sua fame, in tutti i sensi, un amore che, ora, si rivelava senz’alcuna efficacia, un amore che non era servito a nulla!

Luigi e Carla erano cresciuti insieme, se si esclude quel poco scarto di età fra di loro: un solo e poco significativo anno, all’incirca. Erano vicini di casa ed erano anche figli di famiglie amiche, che avevano campagne confinanti. Quando non stavano insieme in paese, ci stavano fuori, di domenica, nell’arco autunno-primavera, tutti i giorni per il periodo estivo. Non c’era un muro, uno steccato, un qualsiasi segno di separazione fra le due proprietà, per cui, a ciascun membro di una famiglia pareva essere parte dell’altra e viceversa. I ragazzi giocavano dove volevano, anche Luigino e Carla, ovviamente. Loro erano i primogeniti in ciascuna famiglia, quindi, sentendosi grandi rispetto agli altri, se ne tenevano sempre distanti, appartati. In età adolescenziale, già avevano preso a scambiarsi carezze, innocenti bacetti sulle guance, piccole effusioni, insomma. Divenuti grandi, dopo le medie inferiori, Luigino si indirizzò al Liceo-ginnasio; Carla, l’anno successivo, entrò alle Magistrali.

Si trovarono fidanzati senz’alcuna dichiarazione di volontà, senz’alcuna formalità. E si vedevano liberamente, senza nascondersi agli occhi della gente, dando per scontato che non mancava loro l’approvazione delle rispettive famiglie. E così era. Luigino era veramente innamorato, in modo molto tenero. Lei, invece, era la parte passiva, per così dire, della coppia: stava al gioco, apparentemente molto volentieri, in realtà senza sprizzare un minimo di entusiasmo. “Andiamo a cinema, stasera?” chiedeva, per esempio, Luigino. “Sì,” rispondeva laconicamente Carla. Non chiedeva mai di che film si trattasse, non diceva mai no, non cercava nemmeno di sapere che cosa sarebbe successo dopo, se sarebbero andati a cena o a ballare o altro. Niente. Gino non si poneva problemi: la piena condiscendenza di Carla era data da lui per scontata, era un comportamento del tutto naturale, era anche una forma di rispetto, era una dimostrazione, un preludio di come sarebbero stati i loro rapporti successivamente, durante il matrimonio. E Luigino se ne sentiva compiaciuto: lui “maschio” con i pantaloni, lei “femmina” con le gonnelle, obbediente, anche se non arrivava a pretendere che gli fosse sottomessa in ogni modo e fino alle estreme conseguenze. Infatti, pur “contento al quia”, non si sentiva addosso la pasta del maschilista.

Superati gli esami di Stato lui, conseguita la licenza magistrale lei (all’epoca, questo corso durava quattro anni), cominciarono a progettare le nozze, a parlare di casa, di arredamento, di date possibili. Luigino era stato fortunato: era riuscito subito a essere assunto presso una ditta locale in qualità di impiegato ‘di concetto’ nel settore del personale. Che Carla potesse insegnare, un domani, era un pensiero che non lo sfiorava. Gli era indifferente. E, se lo sfiorava, non credeva che la moglie sarebbe andata a insegnare anziché accudire i propri figli, dei quali il giovane era convinto che la mamma dovesse essere la prima educatrice.

Si sposarono che avevano rispettivamente venticinque e ventiquattro anni (perché, in realtà, Luigino dovette prima assolvere agli obblighi di leva, che aveva erroneamente dato per scontato non avrebbe assolto in quanto lavoratore). La sera delle nozze partirono per la luna di miele, ma si fermarono, per desiderio di Luigino, al primo paese possibile che avesse un decente albergo. Non vedeva l’ora di ‘consumare’ quel prelibato piatto che, da fidanzato, non era riuscito a ottenere, a causa della filosofia della donna, tacitamente approvata, di fatto, se non del tutto condivisa, da lui stesso. Aveva, spinto da naturali impulsi, tentato molte volte di farselo servire, quel piatto, sia pure senza insistervi e senza obbligarvela, ma Carla, che in tutte le altre cose era stata sempre acquiescente, in quella non aveva voluto cedere di un solo millimetro: era stata determinata a giungere vergine all’altare, vergine a letto. Ed era già una concessione farsi prendere in un letto non loro, in un letto in cui chissà quante coppie avevano già fatto l’amore. Sia come sia, ci stette. Ed era quello che contava, in quel momento, per lo sposino.

Trovarono l’albergo, un onesto e pulito tre stelle, salirono in camera, si spogliarono - separatamente! - fecero - separatamente! - una doccia ristoratrice e Luigino corse a letto, ad aspettare la dolce sposina, in preda a comprensibile trepidazione. Lei non si presentò né nuda, ancora umida d’acqua, né coperta con l’accappatoio; aveva portato in bagno tutti i capi di abbigliamento intimo, li aveva indossati e li aveva coperti con una vestaglia di raso rosa, non trasparente. Sollevò la leggera copertina con il fresco lenzuolo di lino, s’infilò nel letto coprendosi e restò quasi rigida a guardare il soffitto. A Luigino costò un sacco di fatica corteggiarla, denudarla e, specialmente, farla sua. Carla, che come detto si era mostrata per decenni condiscendente a tutte le richieste di Luigino meno quella che abbiamo prima precisato, subì passivamente il focoso attacco dello sposo. Questi, da parte sua, a giustificazione dello strano comportamento di lei, addusse le scusanti della novità, della verecondia femminile, della stanchezza, del nervosismo, delle apprensioni della sposina di fronte all’imminente perdita della verginità e, dalle cause, non escluse nemmeno il ‘dove’.

“Forse ho avuto troppa fretta di iniziare il viaggio; avremmo dovuto sacrificare a Venere nel nostro letto matrimoniale - rifletté il giovane, - ma ormai è fatta”. Non pensò che un essere umano normale, anche se femmina, non si sarebbe fatto sfuggire quella bellissima occasione di gioia e di godimento, un momento che avviene, in quelle condizioni, una sola volta nella vita. Ci si può sposare più volte, si possono avere più e differenti emozioni, ma la donna è una sola volta che perde la sua fisiologica verginità: per lei c’è una sola ‘prima volta’. E, se può risultare vero che la verginità viene perduta con dolore - più psicologico che materiale, - è altrettanto vero che la parte di piacere, generalmente, è quella preponderante. La verginità, dunque, viene perduta con gioia.

Se non la si perde con gioia, potrebbe voler dire che la si è persa con tristezza, in modo forse traumatico. Luigino non pensò a ipotesi del genere, ma si sarebbe accorto presto che i rapporti intimi, per Carla, erano indesiderati, sopportati, perfino penosi, se non angoscianti. Subito incinta, non appena se ne accorse dichiarò espressamente a Luigino che non li gradiva più. “Oltretutto - disse - ho paura per l’esserino che è in me: non vorrei fargli del male, non vorrei che morisse, non vorrei, soprattutto, che nascesse con qualche anomalia, con qualche malformazione”. Non la convinse l’amica del cuore, felicemente sposata, che era stata sua testimone alle nozze, non la convinse la madre, che aveva una notevole esperienza in questo campo, dove aveva sempre “combattuto” diceva, “fin quasi all’ultimo momento”. Bastava solo usare alcuni accorgimenti… ‘tattici’, come una certa delicatezza da parte del maschio, l’assunzione di certe posizioni, un po’ goffe e un po’ scomode, certo, per il compagno, ma del tutto sopportabili e comunque piacevoli, tutto sommato, in quanto, facendo all’amore, ci scherzavano sopra molto volentieri e perfino ci ridevano. Tanto meno riuscì a convincerla il ginecologo che, per filo e per segno, avallò tutto quanto le aveva già detto la madre. Del resto, chi erano costoro, madre compresa, per poter decidere quel che per lei poteva stare bene e quel che, invece, poteva causare del male? Nulla da fare, insomma, e, nato Giovanni, adducendo la scusa che i bimbi crescono meglio se non si allontanano dal calore materno, lo utilizzò come barriera contro eventuali attacchi di Gino che, il più delle volte, si attardava davanti al televisore e finiva per addormentarsi sulla poltrona.

Dopo tre anni dai primi pochissimi rapporti intimi, nulla era cambiato: Giovannino sempre al centro del letto, Luigino sulla poltrona, sostituita, dopo un certo tempo, con un divano, che gli consentiva almeno di distendersi e di non arrivare al lavoro come uno straccio vecchio e consunto. La situazione era tragica, ma Gino amava Carla. L’amava, ma, per essere un amore a senso unico, quello di Luigi con se stesso era un puro teorizzare, senz’alcun valore pratico e destinato, quindi, all’insuccesso. Gli studi classici lo avevano fatto simpatizzare con l’amore platonico, puramente sentimentale, per non dire cervellotico, ma la vita non può essere puro platonismo. L’andamento dei rapporti familiari era dei più banali, senza un sorriso, senza un litigio, senza un atto di ribellione da parte del malcapitato. Insomma, un placido laghetto che nasconde in seno le sue alghe putride! Il giovane sapeva una sola cosa: aveva bisogno di amore, non solo in senso attivo, ma anche in senso passivo. Voleva amare, voleva essere amato, voleva sentire, sotto di sé, le medesime vibrazioni che scuotevano lui.

In quanto ad amare, comunque, per un certo tempo ne fu distratto dallo stesso figlioletto, che attirava la sua attenzione, la sua tenerezza, il suo affetto. Ma, dopo un po’, si risvegliò in lui l’altra esigenza, troppo a lungo repressa, l’esigenza che comportava come naturale epilogo anche il rapporto intimo. Quante volte aveva desiderato Carla. Ma tutte le volte se ne era fatto passare il desiderio. Si sentiva ridotto a una nullità, sentiva addosso tutto il peso del proprio fallimento, ancor più aggravato dal fatto che, in realtà, non se ne riteneva minimamente in colpa. La sera finiva per addormentarsi a causa della stanchezza, la notte gli incubi s’intercalavano a lunghi periodi di veglia, la mattina si alzava presto e passava molto tempo sul balcone, ad accudire le piante. Vi si tratteneva a lungo, ben oltre il reale tempo necessario per annaffiarle e curarle. Era una buona scusa per starsene all’aria aperta, magari a ubriacarsi dei profumi del mattino e, stordito, non pensare ai suoi gravi problemi esistenziali.

Un giorno (strano non l’avesse notata prima) vide passare una bella ragazza, una studentessa - come si evinceva dal pesante zaino sulla schiena ben eretta. Era alta, castana, con i capelli ondulati, tenuti raccolti da una bandana che li lasciava liberi e cascanti, dietro la nuca. Il suo incedere era altèro, ma l’espressione del viso talmente dolce che dissuadeva dal pensare si desse delle arie. Era tutto naturale, come naturali erano le aggraziate forme del petto e dei fianchi, su gambe dalla lunga falcata, inguainate in pantaloni di jeans di colore classico, ma di stoffa soffice, con scarpe dal tacco medio, sportive. Al massimo, diciotto anni. Gli occhi non si potevano vedere, in quanto calzava occhiali da sole con lenti fumate in azzurro, montate su montatura concolore, ma con sfumature più chiare sulle suste (o stanghette che dir si voglia). Saliva dal fondo della strada (si trovavano in periferia e lei veniva dalla parte ancora più esterna rispetto all’abitazione di Luigino, posta al primo piano di una palazzina con pochi condòmini) e, superato il punto della verticale, potette osservarla anche da dietro, un ‘dietro’ che mantenne le promesse fatte dal proprio ‘davanti’: era decisamente ben fatta! Rimase a osservarla, Luigino, fin quando la ragazza non scomparve, a qualche centinaio di metri più su, dietro l’angolo dell’ultimo palazzo.

L’indomani, per la stessa ora, Gino rimase alle velette: non voleva più perdersi quel piacevole spettacolo, lo spettacolo di una fanciulla che si poteva bere, come si dice, in un bicchier d’acqua. Stranamente, cercando di paragonarla a qualcuna che già conoscesse o avesse sentito nominare, la sua mente corse a Beatrice. Pensò che Dante non poteva aver visto quella differentemente da come lui vedeva, adesso, la studentessa. Che presto divenne la ‘sua’ studentessa. Puntuale Gino sul balcone, puntualissima a transitare lei, alle ore sette e cinquanta precise, tanto precise, pensò Gino, da potervi rimettere l’orologio. La guardò per settimane, poi pensò che era arrivato il momento di scendere e vederla passare da distanza ravvicinata. “M’illudo di poter attirare la sua attenzione? Spero di poter suscitare in lei qualche interesse per me?” si chiedeva il giovane, consapevole della retoricità delle proprie domande. E aggiungeva: “Ma perché non sognare? Cosa mi costa? Intanto, pur creandomi semplici illusioni, mi distraggo dai miei guai, tenendo a debita distanza da me ogni proposito di autodistruzione e di annichilamento. Poi, chissà? Non va bene con questa (e, al momento, mi basterebbe averne l’amicizia), andrà bene con un’altra. Perché - ora me ne rendo conto, - questa è la via da seguire se voglio sopravvivere. A che serve amare una persona che, non solo non ha disponibilità d’animo ad amare, ma nulla fa nemmeno per farsi amare?”

E così, ben determinato ad andare avanti, per poter cambiare le sorti della propria vita, l’indomani mattina si preparò ad attuare il proposito. Aveva già mentalmente calcolato il tempo che impiegava la ragazza a giungere davanti al portone, dal momento della sua comparsa in fondo alla strada e, non appena la vide, già vestito, si avviò verso l’uscio di casa, scese a piedi le due rampe fino al pianterreno, girò con (apparente) calma la maniglia della porta a vetro d’ingresso e, simulando indifferenza, uscì, apparentemente per caso, proprio nel momento in cui la giovane toccava la immaginaria linea che, dalla strada, cadeva perpendicolare alla linea frontale del portone, proprio nella parte mediana. Il cuore gli tremava, era in completa e mai vissuta fibrillazione, l’emozione per la gioia della minore distanza fra lui e la giovane lo divorava, si sentiva un adolescente alla prima esperienza d’innamoramento! “Oh Dio, Dio, quanto sei bella! Sei più bella di come sembravi dal balcone!” stava per gridare, ma si trattenne, non tanto però che la ragazza non sentisse, seppur senza capire, che qualcosa l’uomo aveva detto. Notò un lieve movimento rotatorio della testa di lei, gli sembrò che stesse per girarsi, poi, tutto come sempre: il capo eretto, il busto eretto (pareva che la linea del basso ventre sopravanzasse di molto quella del bacino, come quando, in coppia, l’uno spinge a cercare il contatto dell’altra e viceversa), con le solite grandi falcate, proseguì la sua andata. Luigino la seguì, tenendosi a discreta distanza, ma non troppo lontano da farsi sfuggire l’aggraziato ondeggiamento dei fianchi della giovane.

Le stette dietro fino al piazzale antistante la scuola, cioè - piacevole scoperta! - il liceo-ginnasio che aveva frequentato lui un poco più di dieci anni prima. Se non era una mezza calzetta, doveva essere in terza liceo, dunque maturanda. “Però, fisicamente, fisiologicamente” disse tra sé e sé Luigino, “sei già matura. Sei matura per l’amore, sei matura anche per la maternità… Chissà se andrà all’università. Chissà se non sia già fidanzata… Però, se lo fosse, è mai possibile che il fidanzato non la preleverebbe la mattina, che non le farebbe compagnia? Io non la lascerei sola, nemmeno per un istante: è troppo bella, è troppo preziosa! O non sarà che non sia fidanzata, proprio perché troppo bella? Quante volte avviene che noi uomini, noi ‘maschi’, perdiamo il coraggio davanti alla bellezza? Quante volte succede che crediamo fidanzata una bella donna e invece scopriamo che non lo è perché nessuno, per soggezione, è stato capace di avvicinarla, di esternarle la propria ammirazione, di dichiararle il proprio innamoramento? Anch’io ho problemi di soggezione, anzi io sicuramente più degli altri, visto che per me non è esistita che Carla, da sempre. Ma io devo farmi forte del mio desiderio, della mia necessità di sopravvivenza. Se non sarò capace di dirle che mi piace, se non sarò capace di dirle che l’amo, saprò almeno esprimerle la mia simpatia e guadagnarmene l’amicizia, già preventivata come alternativa. Ma, se non sarò in grado di fare nulla del genere, allora non dovrò fare altro che farmi venire il coraggio di sparire dalla faccia della terra. Potrebbe essere un freno inibitore l’affetto per Giovannino, ma Giovannino già dimostra poca tendenza verso di me, poco trasporto. Un po’ più in là potrebbe anche nutrire completa freddezza, per imitare sua madre cui dirmi buongiorno o buonanotte già è di troppo peso. Animo, dunque, caro Gigino, preparati e agisci!”

Ripetette il rituale per alcuni giorni, poi ne intervallò qualcuno senza farsi vivo, e passarono un paio di settimane. Un giorno, sceso puntuale all’ideale appuntamento, preso il coraggio con le famose ‘quattro mani’, due reali e due immaginarie, psicologicamente e spiritualmente aggiunte alle prime, azzardò il primo sorriso. Subito, prima che il coraggio gli venisse meno, si affrettò ad aggiungere, quasi affiancandola: “Sempre puntuali all’appuntamento, eh? Lei arriva sempre nel momento in cui io esco di casa. Poi, dopo un bellissimo tratto, le strade divergono: io prendo quella per l’ufficio, lei prosegue verso la scuola. Perché lei è studentessa, vero? Altrimenti non porterebbe quel fardellone sulla schiena”. Non si aspettava di parlare tanto. La ragazza, inaspettatamente per Luigi, rispose, sorridendo: “Sì, sono studentessa. Ma fino a qualche settimana fa io non l’avevo mai notato. E’ da poco che va al lavoro percorrendo questa strada?” “In verità, no, ci vado già da diversi anni, da subito dopo conseguita la maturità classica, anche se poi ho dovuto interrompere per il servizio militare” rispose Luigino. “La maturità classica? E dove ha frequentato il liceo? Anch’io lo frequento, qui nella nostra città. E’ lo stesso frequentato da lei?” sparò, a mitraglia, la ragazza. “Sì” fu la logica e veritiera risposta. C’era un piccolo svantaggio, fra i due: lui sapeva che lei frequentava lo stesso liceo, lei non si era mai accorta di essere seguita. Ma non costituiva un vero problema. Oltretutto, Luigino avrebbe poi rivelato anche questo, al momento opportuno. “Bene, siamo arrivati al bivio: magari riprendiamo domani a parlare del nostro liceo, se le va” disse Luigi. “E se gradisce che si faccia insieme la strada, naturalmente” aggiunse, dopo una lieve pausa, per darle più tempo di preparare la risposta. “Sì, con piacere, perché no?”

“E’ fatta, le basi son poste, ora bisognerà costruirvi sopra. Sii un bravo ingegnere, un bravo architetto, un bravo muratore, un bravo manovale, Gigino, mi raccomando!” mentalmente si disse, sfregandosi idealmente le mani. “Questo sarà il momento buono per dare dimostrazione che sai voler bene, che sai amare, il momento di dimostrare - anche e, forse innanzitutto, a te stesso - di essere perfino un bravo amatore, se le mire saranno colte” aggiunse e, contenendosi con difficoltà nella propria pelle, guadagnò raggiante la strada verso l’ufficio, verso la scrivania, verso la realizzazione del suo sogno, verso la felicità!

Si rividero l’indomani, si rividero il giorno appresso, si rivedevano tutte le mattine, dal lunedì al venerdì di tutte le settimane. Al secondo incontro, Luigino non si era fatto sfuggire di passare alle presentazioni. “Io mi chiamo Luigi… all’anagrafe. In famiglia mi chiamano indifferentemente Gino, Luigino, Gigino. Io, quando parlo con me stesso, mi chiamo quasi sempre Gigino, lei… anzi, tu, puoi chiamarmi come vuoi e, ovviamente, darmi del tu. Dopotutto, possiamo ben considerarci ‘compagni di liceo’, no? Che fa se io vi sono passato più di dieci anni prima?” “Il mio nome è Alessandra, il ‘tu’ mi sta benissimo, puoi chiamarmi ‘Sandra’, puoi chiamarmi ‘Ale’, puoi chiamarmi anche tu come vuoi, tranquillamente” concluse la giovane.

Per non destare troppo prematuri sospetti in Carla, Luigi non scendeva il sabato, che per lui non era lavorativo, anche se non mancava di trattenersi sul balcone, alle apparenti prese con le sue piante, ma in realtà - ora - al preminente se non unico scopo di godersi la visione della sua studentessa, della sua ‘Àlexa’, come aveva scelto e dichiarato alla giovane che l’avrebbe chiamata, precisando che gli piaceva l’accento sulla ‘A’ iniziale. “Sai” aveva spiegato, “sono un po’ patito per la poesia e, come sicuramente sai, il poeta è, lo dice, come sai, lo stesso verbo greco, uno che ‘fa’, che ‘crea’. A me piace ‘creare, ex novo’, anche i nomi delle persone. Di quelle che mi stanno a cuore e per le quali nutro stima, simpatia, affetto. Per una sola persona non ho coniato un nome tutto mio, ma ne parleremo in seguito”.

Le prime battute erano veramente buone, positive. Non potevano non preludere a qualcosa di oltre la semplice amicizia. E Luigi si dispose a lasciarsi trascinare dalla corrente, ovunque questa lo avrebbe portato. Anche alla deriva!

Dai brevi e (per chi li vedeva) apparentemente casuali incontri del mattino, si passò a qualche incontro serale. Lei aveva accettato un appuntamento per un caffè, “all’unico scopo di approfondire, con una bella chiacchierata, la nascente amicizia”, aveva giustificato lui. Avevano parlato dei professori, di chi insegnava ai tempi di lui, di chi stava insegnando in questi anni. Avevano allargato i loro argomenti, fino a toccare la filosofia, la teologia, il sociale in senso lato, la politica, i rapporti interpersonali, la poesia (verso la quale, in particolare, il giovane aveva intenzionalmente ‘veicolato’ la ragazza, un po’ più per egoismo che per altruismo, e per cercare di sapere quanto lei vi fosse versata). Tutto era piacevole e scoprirono che davvero avevano molti interessi in comune e nessuno pareva prevalere sull’altro per profondità di conoscenze (anche se la differenza di età faceva sbilanciare - ma non di molto, poi, - per esperienze di vita, il piatto in favore di Luigi. Dall’appuntamento al bar all’appuntamento al cinema, da questo alla pizzeria, al ristorante, alle passeggiate notturne del dopo-cena o del dopo-spettacolo.

Quando a Luigino parve maturato il momento, raccontò ad Àlexa del suo matrimonio, di come fosse naufragato subito, nonostante avesse sempre sentito dire bene dei matrimoni scaturiti da amicizia, specialmente quella consolidata da molti anni di conoscenza. “Tutto falso!” si sfogò Gino. “O, almeno, se esiste una regola, come abbiamo appreso anche a scuola, esiste senz’altro pure un’eccezione. Il mio matrimonio con questa ragazza vissuta con me fin dalla sua nascita è un’eccezione. Sicuramente. Ma perché doveva capitarmi una cosa del genere? Cos’ho fatto io al mondo!? E perché dovrebbero, simili eccezioni, capitare ad altri? Io non annetto alcuna importanza a chi capitano certi guai; è solo esecrabile che capitino, a chiunque!” Alessandra, o per naturale trasporto materno o per simpatia o, forse, già per un altro sentimento più profondo, allungò le mani attraverso il tavolo del ristorante, prese quelle di Luigino, le strinse, le accarezzò, s’intenerì, mostrandone gli effetti nei suoi occhioni da cerbiatta. Luigino esprimeva tutta la sua sincerità, parlava con tutta franchezza. In quel momento, in lui, non era presente il suo disegno, il suo sogno da realizzare. Era affranto, solo affranto. Nient’altro. E parlava ormai come se non parlasse ad altra persona, ma come in soliloquio. Non si accorse nemmeno che Àlexa lo aveva condotto fuori dal ristorante e che si trovavano in un viale di periferia, costeggiato da un boschetto di profumati pini. Ne prese coscienza solo quando si trovò incollate, sulle proprie, le carnose, calde, dolci e sensuali labbra di lei, quando sentì, contro il proprio pube, il monte di venere della ragazza.

Si spostarono, si appartarono, sparirono nella vegetazione. Si abbassarono, si sdraiarono, si denudarono, incuranti di eventuali pericoli, si presero. Questa volta, Luigino non si accorse minimamente della fatica necessaria per deflorare la verginità di una vergine: la ragazza non solo collaborava, ma addirittura guidava lei stessa, era attiva, era fattiva, era la regista del rapporto. E il rapporto fu un vero capolavoro. Luigino non aveva mai immaginato che si potesse davvero volare tanto alto nel cielo, che ci si potesse sentire così felici da sentirsi espellere dal proprio materiale corpo. La sua prima volta con Carla era rimasto molto più deluso delle volte in cui - non potendola avere, da fidanzati - ricorreva all’autoerotismo per quietare i suoi istinti naturali. Immaginava che fare all’amore doveva essere una gran bella cosa, ma che fosse così grandiosa lo scopriva solo adesso, con questa ragazza che, stando all’età, non doveva essere tanto matura quanto lo era, invece, Carla. E non si limitò a fargli provare quell’unica gioia, Àlexa; un po’ alla volta, gli offrì rapporti elaborati secondo tutte le ricette possibili, in tutte le possibili ‘salse’. La sua ‘disinibitezza’, la sua naturalità, ora che Gino le verificava, le viveva di persona, parevano essere le migliori e più indicate essenze delle dette ricette. La padronanza della materia, da manuale, da Kamasutra, più propriamente, ricco di ipotesi e teorie, molte volte - come aveva sentito dire il giovane, che non aveva letto personalmente l’interessante libro orientale - da fantascienza. Ma Gino non si pose problemi, non si chiese perché Àlexa era così esperta nell’arte amatoria; inconsciamente, prima di porsi la domanda, doveva essersi dato la risposta: l’apertura mentale della giovane e il suo essere naturale.

Sembravano fatti proprio l’uno per l’altra, questi due giovani: piena concordanza di vedute generali, piena corrispondenza, piena intesa nei rapporti intimi. Potevano desiderare di più? Certo, Gino lo desiderava: desiderava una vita sociale familiare, fatta non solo di sesso, ma anche di affetti, di figli e delle gioie con tutto ciò connesse. Sandra non si pronunciava, viveva quell’idillio in modo tranquillo, come se non vi fosse coinvolta direttamente, e ne viveva i momenti come se ciascuno di questi, volta per volta, fosse sempre l’ultimo. “E’ troppo giovane” la giustificava Luigino, disposto sempre alla comprensione. “Ha ancora bisogno di libertà. Non è ancora tempo di abbracciare la croce (perché croce è) del matrimonio, della famiglia, dei figli. La devo lasciar crescere ancora. E intanto, anche io devo cercare una strada per giungere a una soluzione del mio legame con Carla”.

Carla, in realtà, sapeva tutto del marito. Anche se la città in cui risiedevano non era un piccolo centro di provincia, non essendosi dovutamente tutelati Luigi e Alessandra, ben presto le voci erano ugualmente corse ed erano pervenute alle orecchie della donna. Ma questa, sicuramente consapevole della propria colpa, non aveva ritenuto di dover chiedere conto al marito. “Dopotutto” lo giustificava, “questa ragazza gli dà quello che io non gli do e sicuramente mai gli ho dato. Altra cosa sarà perdere il padre di mio figlio, se per lui sarà più forte la passione per l’amante che l’affetto per la sua creatura. Vedremo…”

Non s’incontravano proprio tutte le sere, i due amanti, e mentre Alessandra, più intuitiva, più perspicace, era riuscita a capire che Gino rimaneva in casa quando non si vedevano, quest’ultimo non sapeva quello che faceva e dove andava la ragazza senza di lui. Non si poneva domande, però: la primavera stava per terminare, gli esami di maturità si potevano considerare alle porte: l’unica cosa che potesse fare la ragazza era sicuramente quella di studiare. Cos’altro poteva fare, visto che non frequentava né amiche né colleghe? “Meno che meno amici” si diceva, convinto, Luigino. E subito poneva fine ai suoi pensieri, effimeri come scintille di falò. Unico particolare che aveva notato il giovane era che Àlexa, al contrario di lui, non prendeva mai l’iniziativa di parlare del loro futuro, di convivenza, di matrimonio. Nulla. Non sapeva nemmeno se si sarebbe iscritta all’università e, qualora lo volesse fare, quali discipline di studi seguire. Niente sapeva, Carla, niente le importava. “Sto bene, così” diceva. E gli chiedeva: “Hai dei problemi, visto che non te ne solleva tua moglie? Io non ti sollecito nemmeno la separazione personale. Per ora ‘carpe diem’, secondo il suggerimento di Orazio, vivi alla giornata e non ti preoccupare. Domani, quando si renderà necessario affrontare la questione, cercheremo anche di risolverla. E, speriamo, nel miglior modo possibile”. Non erano tornati molte volte sull’argomento: Alessandra non lo gradiva, Luigi se ne asteneva. Sia pure a malincuore. Ma quanto avrebbe voluto parlare, quanto avrebbe voluto sentire da lei quali erano i suoi programmi, i suoi progetti, le sue aspirazioni! Lui stesso avrebbe voluto prendere subito una decisione, iniziare le trattative con la moglie e rendersi in grado di sposare Àlexa quanto prima possibile. Non solo per vivere serenamente, senza debiti con la morale sociale, ma anche per il desiderio di paternità, una nuova paternità in cui lui, come padre, potesse contare qualcosa, al contrario di adesso che, nonostante la continuità di affetto riversato su Giovannino, sentiva di non avere ormai più alcun ascendente su di lui e si vedeva sempre più sfuggire di mano la possibilità d’interventi educativi. Decisamente, non contava proprio niente: era escluso da tutto.

Prima che iniziassero gli esami di maturità, Alessandra chiese a Luigino di non incontrarsi fino alla fine degli impegni. Non proprio di buon grado, Luigino acconsentì. Ma, razionalmente, non riusciva a volergliene: gli esami di Stato erano stati impegnativi per lui, è chiaro che lo erano per tutti e specialmente per la ragazza che, per stare con lui, aveva un po’ tralasciato i propri impegni di studio. “Sarà penoso non vederla per settimane intere, ma devo stringere i denti. D’altra parte, che gesto d’amore sarebbe, se pretendessi il suo tempo in questo delicato momento?” disse in tono autoconsolatorio, ma pienamente convinto che quello era l’unico comportamento corretto da tenere. E venne il giorno della sentenza: Alessandra fu promossa, sebbene con un punteggio non molto elevato, Luigino ne fu contento, la festeggiò, la incoraggiò e, con un gesto di generosità, onesto, franco, sentito, la invogliò a proseguire gli studi. Qui, inaspettatamente, si sentì dire dalla ragazza che ci aveva già pensato ed era giunta alla conclusione e alla determinazione di voler effettivamente frequentare la facoltà di Magistero, per conseguire una laurea in sociologia o in psicologia - doveva deciderlo. Non fece in tempo, Luigino, a mostrarsi felice della decisione presa che subito dovette rabbuiarsi. Àlexa, infatti, gli comunicò che non si sarebbe iscritta all’università della loro città, ma si sarebbe trasferita a Firenze o a Siena, ospite di parenti, della madre nel primo caso, del padre nel secondo. “E che ne sarà di me, di te, di noi, del nostro rapporto, del nostro amore? Che ne sarà del mio desiderio di vivere con te? Tu sai che la mia ditta non ha filiali, non ha diramazioni di alcun genere; altrove, non potrò trasferirmi. Non posso lasciare questo lavoro per cercarne un altro e non ho alcuna possibilità di vivere di rendita, oltre al fatto che, volente o nolente, per legge o per coscienza, devo provvedere al mantenimento di mia moglie, che non ha un lavoro, e di mio figlio, che è piccolo e, sebbene ormai plagiato dalla madre, è pur sempre mio figlio - oltre a essere innocente. Cosa faremo? C’incontreremo sporadicamente?... Dove?... Quando?... Mi sento perso… E ho la brutta sensazione che finirò per perdere anche te…” concluse Luigi, visibilmente rattristato e con gli occhi lucidi.

“Non so dirti, adesso, su due piedi, cosa sarà di noi. Ma una cosa è certa: non ho alcun desiderio di sacrificare il sogno, inaspettatamente sorto, di laurearmi, di crearmi un futuro di lavoro che non mi lasci alle dipendenze economiche di altri, chiunque siano. Mi dispiace. So quanto sei attaccato a me, so che per te io rappresento la tua àncora di salvezza esistenziale, ma ogni decisione riguardo a noi, a una eventualità di vita insieme, deve necessariamente essere rinviata a dopo. Sarà un duro sacrificio aspettarmi, ma, se ce la farai, avermi per la vita sarà il tuo compenso. Non posso dirti altro, non posso dirti nemmeno se ci vedremo, l’eventuale dove e l’eventuale quando. Posso prometterti che cercherò di tenerti informato, ma non ti darò il mio indirizzo, non ti fornirò il mio numero di telefono: desidero non arrecare disturbo a chi mi ospiterà. E ti posso confermare, almeno al momento, che stare con te non è stato un capriccio, non è stata una superficialità, una leggerezza commessa irrazionalmente, anche se l’amore è irrazionalità; ti ho amato con tutta me stessa, sacrificandoti il mio tempo e la mia personale reputazione, in modo deciso, determinato. Ho difeso la mia scelta contro la mia famiglia e ho perfino accettato di rischiare attacchi dalla tua ‘controparte’… Ma ora… ora, ti prego, non volermene… sii buono, sii comprensivo… Se c’è qualcosa fra le stelle, se nel cielo esiste un disegno che ci riguarda, si appaleserà, lo vedremo, lo vivremo… E non voglio salutarti con un ‘addio’, ti saluto con un ‘ciao’ e con un abbraccio” e, così concludendo, Àlexa gli si strinse contro, facendogli sentire ancora una volta il suo procace corpo, gli sfiorò le labbra con un lieve, tenero bacio e, staccatasi, si girò e si allontanò. Senza voltarsi.

Scomparsa lei, anche il mondo circostante parve a Luigino che fosse scomparso: non vedeva più nulla. Rimase con le labbra socchiuse, senza parole, senza fiato, le braccia appena protese in avanti, verso un futuro che non sarebbe mai più stato suo. Luigi lo sentiva, i fatti gli avrebbero dato ragione. Àlexa gli telefonò una sola volta, poi tacque.

Per sempre.

Enzo Campobasso


 Redazione (foto cinefobie.com)

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 09/10/2012 -- 23:17:59 -- Paolo

Àlexa, un nome di sogno, il simbolo di un sogno, il sogno della donna, dell'altra metà del cielo,che accompagna sempre l'Autore.

 
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