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29/08/2012

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“VENTI DI GRECALE”: Feste sacre e profane - 4° cap. (2)

Clicca per Ingrandire «‘U vi, Bėjanġł! Cė stannė almąinė tre kąusė ke ki sta jind’a cėttą nan po včivė akkąumė cė vivėnė akkuą, jind’a stu pająisė» mi dice spesso Papą. «U ciąilė stėllatė - tu l’ą vvistė majė a Rąumė tanda stellė akkąumė cė vedėnė o’ Spassjatņurė? - u Kambėsąndė - tu l’ą vistė akkąumė jč ‘kkuą u Kambėsąndė, jč nu stozzė d’a kasa nostrė - e u kańńamčndė di stašņunė, ke akkuą dėcčidė akkąumė cė kambė.»

Sģ! Paolo e io siamo a Peschici ormai da pił di tre anni, e ho potuto cogliere la ciclicitą annuale delle cose della vita, scandita dal succedersi delle stagioni e talvolta dalle fasi della luna. “I lavori dei campi e i lavori del mare - rifletteva Raffaele - variano con le stagioni, come ha voluto Dio quando le stagioni le ha create. Qui tanta gente lavora nei campi: i dintorni sono ricchi di oliveti, e anche di vigneti, e c’č anche qualche campo di grano, e un po’ di agrumi, e ci sono gli orti piccolini, tanti, e c’č qualche pecora, c’č pure un gregge grosso che viene dall’Abruzzo, e poi se ne ritorna. Anche se qui c’č tanto mare: ma č temuto il mare!”

«Failłccė ą rrėjalat’ a Paskualčinė e pņur’a me i Bukolėkė, u libbrė dė Vėrgilėjė, e ońńė tandė va truąnnė k’amma parlą pė forzė dė kuąlėke strąufė, va truąnnė pņurė ke Paskualčinė l’avčsssa fa kanņššė jind’i skąulė akkušģ i uańńņunė c’abbģttuėnė a kapģ ‘a passiąunė pa kambąńė e pė tuttė i kundė ke stannė attłrnė, propėjė l’Arkądėjė ke pėjacė a Vėrgilėjė.»

«Ma kuąlė Arkądėjė va truąnnė tu a Peskėcė!» ironizza Don Pasqualino. «Jind’all’Arkądėjė dė Vėrgilėjė parė ke nan gė fatčjė, ke cė sąunė ‘a trummčttė e cė fannė ballčttė. E bbastė! Akkuą i krėstėjanė ‘a ponnė majė kapģ? A ląurė ‘i pėjacčssė škittė ke cė sąunė e c’abbąllė pėkkč sottasņttė so’ frakkņmėdė. ‘A vėrėtą jč ke akkuą ‘a fatėjė jč tostė assąjė, e pė jģ a fatėją t’ą mauė a ppąidė, t’ą purtą ngollė kuillė ke servė, sė na’ ttčinė nėmalė. Stratė n’ gė nė stannė, t’ą nġrapėną pė trattņurė spissė sdrupątė. E po ke cė mańėnė? Nu stozzė dė panė, nu morsė dė cėkorėjė, kualėkė fronnė dė rapė.»

«Lėsettė e Lėsuccė» mi ha informato Don Pasqualino evidentemente compiaciuto «anna fattė pi uańńąunė d’a skąulė nu kalendaričttė dė tuttė i fattė ke succčdėnė jind’a n’annė, akkušģ nan cė mbroġġjėnė e ‘i tenėnė affėlątė jind’a kapė.»

Ho chiesto a Lisetta se mi fa leggere il calendarietto: «Pėkkč nan t’u kupėjė» mi ha risposto soddisfatta, «akkušģ t’u liggė pņurė tu!» L’ho letto, e l’ho copiato. Ha messo un po’ di ordine anche nella testa mia. La vita dei paesani qui č regolata da due cicli annuali: il ciclo delle stagioni e il ciclo della liturgia cattolica.

* * * * *

La spremitura delle olive a fine novembre inizio dicembre chiude il ciclo annuale dei campi.

«Akkuą doppė ke fėniššė ‘a vėdeńńė» mi spiega Lisetta «dąujė sonnė i kąusė ġrossė ke c’aspčttėnė: u jurnė ke c’accčidė u porkė e i festė dė Natąlė, po kkumčnzė veramčndė u vernė.»

«Patrņ, amm’accčidė u porkė » avvisa Antonio. Il maiale di casa Laberi č sacrificato nella cantina del Renazzo. La sacerdotessa sacrificale č naturalmente «Mammą» Mariuccia. Sono andata lo scorso dicembre ad assistere al rito. Il Renazzo, uno dei poderi di famiglia, si trova nella piana che precede la salita verso Peschici, a un paio di chilometri dal paese, a un paio di centinaia di metri dal mare, in terreno completamente sabbioso di tre-quattro ettari, attraversato dalla rotabile. Un pozzo, scavato all’interno del podere, provvede acqua potabile, fresca, copiosa, intercettata sui quindici venti metri di profonditą; il pozzo č protetto da una balaustra circolare in muratura dalla quale si alzano, in posizioni diametralmente opposte, due piloni anch’essi in muratura nei quali č inserita una carrucola con l’asse orizzontale metallico e la puleggia mobile. L’acqua č portata in superficie azionando a mano un secchio di alluminio, legato a una corda lunga una decina di metri, che continua in una catena lunga una ventina, volta intorno alla carrucola. E’ una delle sorgenti del paese.

Il terreno, circondato lungo tutto il perimetro da una siepe di fichidindia, č coltivato quasi completamente a vigna. Intorno al pozzo, intorno alla fonte dell’acqua, si affollano uno accanto all’altro: l’agrumeto, con una ventina di alberi quasi tutti aranci e qualche limone; l’orto, un rettangolo di una decina di metri per quindici; una macchia allegra di melograni; una macchia di fichidindia - qui intorno č pieno di fichidindia, che non richiedono né acqua né trattamenti; - spaventapasseri di legno e paglia qua e lą, nell’orto, nella vigna, nell’agrumeto; la porcilaia, un rettangolo di circa quattro metri per cinque; il pollaio, un rettangolo pił piccolino. La casetta contadina č non lontano dal pozzo. Dalla parte opposta della rotabile svettano un paio di gelsi maestosi, cari ai ricordi giovanili di Papą Paolo.

La casetta č strutturata su due piani, sovrastati da un tetto in coppi, con ai quattro angoli quattro piante di agave, una delle passioni di Papą: il vano a pianterreno - «‘a kandčinė» - sembra un magazzino, il vano a piano rialzato č reso abitabile. Ci vive adesso Angelantonio con Nunziatina, la moglie, e Annuccia, la figlia. Il vano abitato monolocale presenta un aspetto spartano: pavimento rustico, balconcino, letto matrimoniale, focolare molto grande, acquaio, madia; sulle pareti un Crocifisso, un’immagine di Sant’Elia, una della Madonna di Loreto, un fucile; sulla mensola del focolare una brocca, una pentola, una padella e qualche ramaiolo; sotto l’acquaio tinozze e un catino; vicino al balconcino, in terra, tre o quattro cassette di legno, ripiene di terra, con qualche piantina, che sporge - un semenzaio - appesa a ganci che pendono dal tetto, intrecci di pomodori, granturco, uva, peperoncini, saggina.

Al vano abitabile porta una scala esterna, protetta da una ringhiera metallica; sotto la scala, tra cataste di legna, una capezza, pendente da un anello infisso nel muro, lascia intuire lo spazio riservato al mulo, quando č a riposo. Il vano cantina, anch’esso monolocale, anch’esso con pavimento rustico, č in parte destinato a cantina vera e propria - produzione e conservazione del vino, - in parte a magazzino di attrezzi - zappe, vanghe, rastrelli, irroratori, e altro, per i lavori della vigna, dell’agrumeto, dell’orto, - di foraggio, di ceste, bigonci, pentoloni di rame, paioli; in un angolo un tavolaccio in legno grezzo con un cassetto č addossato al muro, sotto un’immagine di Sant’Antonio e una mensolina, affissa al muro, con una candela spenta. Davanti alla cantina, ai piedi della scala di accesso al piano superiore, uno spiazzaletto, in terra ben compattata, č sovrastato da un pergolato d’uva, sorretto da colonne circolari in muratura. A un lato dello spiazzaletto č situato il forno.

Quando «Mammą» e io arriviamo con il calesse, Angelantonio sta cogliendo fichidindia dalla siepe che costeggia la rotabile, a lato del cancello d’ingresso al podere: ha la carnagione brunita di sole e di vento, un maglione di lana grezza avana cangiante, l’immancabile baschetto; in una mano tiene una pala di ficodindia secca, piegata in due - che usa a mo’ di tenaglia, per evitare di ferirsi con le spine, - con cui stacca i frutti dall’albero, ruotandoli su loro stessi; nell’altra mano una brocca metallica, nella quale ripone i frutti raccolti.

«Uč, patrņ, kąumė jamė?» ci sorride.
«Mo jč! Cė stannė i fėkėdinėjė anġąurė » osserva «Mammą» sorpresa.
«Assąjė, Patrņ, cė nė stannė assąjė!»

Angelantonio apre il cancello; Moro conduce il calesse a memoria fino allo spiazzaletto, si ferma davanti alla porta della cantina. La brezza leggera, che viene dal mare, porta con sé un profumo misto di salmastro e di campi assetati. I tre figli di Antonio, venuti da Peschici a piedi, stanno gią lģ, seduti in terra sotto il pergolato, tra una brocca colma di fichidindia e mucchietti di bucce, il muso e le mani impiastricciati del sugo rosso dei frutti; due di loro osservano il terzo, che continua a sbucciare frutti con grande destrezza: ferma un frutto con una forchetta, e, armeggiando un coltello, scappuccia le due estremitą, incide il frutto per tutta la sua lunghezza e lo srotola sulla sua stessa buccia.

«Patrņ, kąumė jamė?» dicono in coro.
«Uańńł, stitėvė attčndė» risponde «Mammą» avendo notato la quantitą dei mucchietti di bucce. «U spėzėjąlė dė oġġjė dė ricėnė nan nė tąinė assąjė! … Bėjanġł dė fėkėdinėjė nan tė n’ą mańńą assajė, sėnnņ cė ‘ndrossėnė i vėdellė e pė jģ dė korpė jč nu probbląimė.»

«Včinė akkuą, Bėjanġł!» Inforcate le pianelle, «Mammą» atterra decisa dal calesse, e trotterella verso la cantina.
«Mėttimėcė akkuą ke sta pņurė Sandandņnėjė, ke jissė prutčggė i nėmalė. Allą cė sta pņurė ‘a katėnellė» e mi indica la catena di anelli metallici assicurata al soffitto.

Si muove velocemente; tira fuori da un cassetto un paio di spazzoloni di saggina, un coltello acuminato - «u skannatņurė» mi spiega - e un gancio di legno ricurvo, molto robusto; li dispone sul tavolaccio, trova un paio di catini, li appoggia sul tavolaccio; prende una sedia, la dispone vicino al tavolaccio.

«Jangėlandņ, addł’ u porkė!» ordina.
«Kuąttė purcčllė, Bėjanġł, cė stannė jind’a stallė: dņujė mąskulė e dąujė femėnė; vņunė di mąskulė jč pėcėninnė nduttė. I skrąufė nan gė tokkėnė: servėnė k’anna fą fiġġjė. U kkjł pģkkulė ą jessė u prossėmė patrė. Jangėlandņnėjė sapė a ki tokkė: tokkė a Ġruńńčinė, u mąskulė kkjł ġrossė.»

Da fuori arrivano cori di grugniti di pił maiali; e urla di Angelantonio imperiose: «Jammė ja’! Kamčeeinė!» e urla e risa di ragazzi. Uno dei grugniti si stacca dal coro, diventa via via pił vicino, pił impaurito, si esalta, si fa stridio, urlo quasi umano. Si sente Angelantonio gridare: «Nunzėjatģ, prėparė l’ąkkuė!»

Grugnino entra terrorizzato nella cantina. Angelantonio, che lo ha imbragato con la capezza del mulo, lo tira dentro, i ragazzi lo spingono dal didietro, alternandosi. Lui, Grugnino, cerca di resistere, puntando le zampe, stridendo.

«Ja, vulėtątėlė» ordina Mammą. «E tu, Nėkulģ, addņucė u kainčllė!»

I carnefici afferrano Grugnino per le zampe, lo fanno cadere su un fianco, lo rivoltano supino e lo trascinano, prendendolo per le zampe, fino alla sedia, dove «Mammą» l’aspetta seduta, armata di scannatoio. Angelantonio tiene ferma la testa di Grugnino; Grugnino grida e guarda «Mammą» con sguardo implorante. «Mammą» infila con fredda determinazione lo scannatoio nel collo di Grugnino: un fiotto di sangue sgorga copioso dallo squarcio e viene raccolto nel catino che Nicolino sorregge.

«L’č taġġjątė ‘a vąinė u kollė!» sorride soddisfatta «Mammą», mentre gli stridii di Grugnino, che guarda desolato il suo sangue fluire nel catino, diventano sempre pił flebili, finché si acquietano, e lui chiude lentamente gli occhi. Un silenzio nuovo regna per qualche momento nella cantina: si avvertono solo i grugniti, lontani, dei sopravvissuti.

«Mo l’ąmma spėlą!» ordina «Mammą».
«Jammė, uańńł!» Angelantonio incita a riprendere il lavoro.

Sollevano Grugnino, ormai esanime, e lo pongono sul tavolaccio. Nel frattempo arrivano Nunziatina e Annuccia - davvero fiorente, e procace, Annuccia! - con brocche e padelle colme di acqua calda. Angelantonio e Nicolino bagnano Grugnino con l’acqua calda e con gli spazzoloni inzuppati di acqua lo rasano, privandolo delle setole; poi gli strappano le unghie; poi gli incidono le zampe posteriori, e vi inferiscono il gancio di legno; poi fissano al gancio una corda, robusta e lunga, il cui altro capo fanno passare attraverso un anello della catenella.

«Jammė, Frangģ» incita ancora Angelantonio.

Angelantonio e Francesco, il figlio maggiore di Antonio, sollevano Grugnino fin quanto possono; poi Angelantonio si aggrappa al capo libero della corda e issa Grugnino verso l’alto, fin quando la sua pancia risulta ad altezza d’uomo. Annuccia intanto, che ha preso una tela di iuta pulita, la stende in terra sotto Grugnino; la stende, inginocchiandosi in terra, e stendendola con le mani, in una posizione che esalta inopinatamente le sue forme generose; sotto lo sguardo perso di Francesco. «Mammą» riprende lo scannatoio e incide la pancia di Grugnino. Entra con le mani nel suo ventre e ne estrae, uno dopo l’altro, il fegato, il cuore, le reni, i polmoni, lo stomaco, la vescica, gli intestini. Tutto viene deposto sulla tela, tranne gli intestini. Annuccia e Francesco prendono gli intestini e li vanno a svuotare «sott’i portająllė e i kėmņunė pėkkč fannė da kungčimė» mi spiega Mammą»

Tornano, Annuccia tutta rossa in volto, Francesco tutto ansimante - Angelantonio gli lancia sguardi di fuoco - con gli intestini di Grugnino, li rovesciano e li lavano ripetutamente con acqua calda; li depongono sulla tela. Angelantonio intanto, con la scure presa in un angolo della cantina, mentre i ragazzi mantengono Grugnino per le zampe anteriori, percuote sul corpo di Grugnino, dividendolo in due. «Mammą» estrae midollo e cervella dalle due mezzene, li pone sulla tela, e guarda il tutto soddisfatta.

«Ja, mo Gruńńčinė cė po raffrėddą!» decide «Mammą».
«Jangėlandņ, prėparė u fagņttė, ke cė n’ąmma jģ!» Mammą si lava le mani con l’acqua che verso da una brocca in un catino; osserva con attenzione le mezzene di Grugnino, penzolanti dal soffitto; segue con lo sguardo Angelantonio, che prepara il fagotto, annodando a due a due gli angoli opposti della tela, e poi lo appoggia sul calesse, sul posto a lato del cocchiere, insieme al catino che contiene il sangue. Giungono grugniti lontani, pił tranquilli. «Stannė mańńąnnė» riporta Angelantonio con un sorriso furbo. La brezza continua a portare dal mare profumo misto di salmastro e di campi assetati. «Mammą» trotterella verso il calesse; vi si arrampica, non senza una qualche fatica, con tenacia; si accomoda; lascia cadere le pianelle; verifica che io sia a mio agio vicino a lei; nota che i ragazzi hanno ripreso a ingurgitare fichidindia, e scuote la testa. «Me, ‘Ndņ, jammėcģnnė!»

“«Mammą» - chiedo - non possiamo prendere qualche fiore e portarlo su a casa?”
«Fėjņurė, Bėjanġł, fėjņurė?» Mammą scuote la testa, sorridendomi divertita.
«Kumą Bėjanġł» si inserisce Angelantonio «kkuą nan cė stannė fėjņurė: pi fėjņurė cė vo tembė; cė nė vo assąjė dė tembė; e i fėjņurė nan gė mańėnė.»
«Me, Patrņ, piġġjėtė i portająllė.»

Angelantonio appoggia sul calesse una sporta, colma di arance profumate; la sporta concava di vimini ha un manico in legno, che termina con un gancio a ‘V’ rovesciata.

«Akkušģ cė po appennė sąup’ a l’arbėlė» mi spiega «Mammą».
«Ąaa! Ąaa!» fa Antonio.

Moro prende a muoversi verso Peschici. Nunziatina e Annuccia ci salutano dal balconcino, ondeggiando le braccia alzate: in una mano hanno una fetta di pane, nell’altra una cipolla.

«Du porkė, Bėjanġł, nan gė jettė nendė. Ma propėjė nendė. Mo subbėtė, a kasė, kė kuąlėke avėta kąusa saprčitė, facčimė u sanġunąccė; u jindė po - fekėtė, mevėzė, celčbbrė, mėdullė, ‘i kucėnamė sfrittė ka cėpollė jind’a tėjellė, o passatė jind’a farčinė arrėstņutė - ammėjammčjė sėnnņ cė nė vannė d’acģzzė; fra dņujė o tre jurnė, kuąnnė i dņujė kuartė cė sonnė raffrėddątė e ammullątė, Jangėlandņnėjė ‘u fa pezzė pezzė a Gruńńčinė: ‘u skuąrtė, e i pezzė c’i portė a’ kasė; ka kapė, i rekkjė e i pąidė facčimė u bullčitė ki cėkorėjė e i rapė; l’ati pezzė po ‘i saląmė e ‘i stėpąmė o’ friškė: ki koššė facčimė u prėsuttė, ka trippė ‘a vėndreškė, ki fėjanġė u lardė e i kotėkė, ku ġrassė ‘a nzońńė; e tuttė u restė fėniššė a zavėzģkkėjė e supprėssątė.»

Moro intanto č arrivato alla Curva di Mastro Matteo, e come al solito si č allargato sulla sinistra, rallentando. Matteo sta davanti alla porta della sua bottega; ci vede; ci saluta, levandosi il baschetto, con la mano alzata.

«Kumą Marėjł, kąumė jamė? Kumą Bėjanġł, kąumė jamė? E u fiġġjņulė?» Vede il catino con il sangue e il fagotto: «Avģtė accģsė u porkė? Kuģstė e mill’ąvėtė!»
«Ġrazėjė, sand’e vekkėjė» risponde «Mammą».

Moro continua tranquillo verso casa.

* * * * *

L’atmosfera del Natale inizia ad avvertirsi fin dai primi giorni di dicembre. La gente qui ha un vero e proprio culto per la famiglia e per il focolare domestico, intorno al quale la famiglia si raccoglie. E Natale č la festa della famiglia. Caruso, gią dalla prima domenica del mese, prende a suonare sull’organo del Purgatorio i motivi tradizionali del Natale: ‘Tu scendi dalle stelle’, ‘Astro del ciel’. I bambini li cantano a scuola, alle adunanze dell’Azione Cattolica, in chiesa, e anche a casa e per strada; e si raccolgono, con gli occhi ridenti e sognanti, attorno agli zampognari, quando compaiono, e li seguono per le stradine del paese, mentre loro ripetono con zampogna e ciaramella i motivi all’infinito. Passano ogni anno gli zampognari, anche se fugacemente: scendono dall’Abruzzo e trovano ospitalitą nella casetta di «Mattėjłcc’u Pėkcurąrė» a lato dello stazzo; compaiono in coppia, con i cappelli a cono cinti da fettucce attorcigliate, avvolti nei mantelloni a ruota, di lana blu, pesante, che lasciano scorgere corpetti di vello di capra, calze di lana grossa, e cioce con fettucce che cingono le calze fino ai polpacci; compaiono per una giornata e poi spariscono misteriosi, come in un sogno.

Tutti in ogni casa, oltre che in ogni Chiesa, fanno il presepe. Angela a casa lo prepara sui gradoni dell’altarino del Sacro Cuore, sotto gli occhi sgranati di Paolo, ancorato sulla carrozzina, a distanza di sicurezza in maniera da non potersi impossessare dei pezzi, che comunque cerca di afferrare con le manine protese: e c’č la stalla, scavata nel legno da Angelantonio, e nella stalla ci sono Maria e Giuseppe, inginocchiati di fronte alla mangiatoia in attesa dell’evento, e il bue e l’asinello accovacciati; e ci sono monti, anch’essi modellati nel legno, e valli, e sentieri, ricoperti di zolle di terra e di sabbia, e fiumi, ricavati con pezzi di vetro, e casupole di pastori, scolpite nel sughero; e pastori, e pecore, e i tre Magi, con i loro doni e i loro cavalli; e c’č un Angelo, sospeso sulla stalla, che osanna ‘Gloria a Dio nei cieli altissimi’; e la stella cometa, che indica la stalla; e ai limiti del presepe c’č tanta frutta - arance, fichidindia, olive - in attesa di essere gustata dal Bambinello; e qualche candela, che viene accesa nelle giornate pił importanti, Natale, Capodanno, Epifania. Quando lo prepara, il presepe, Angela lascia la mangiatoia vuota - «u Bammėnellė naššė ‘a nottė Natalė» ha tentato di spiegare a Paolo, che lo cercava - e posiziona i Magi lontano dalla stalla - «ann’arruą u jurn d’a ‘Bėfanėjė.»

Natale per qualcuno č tempo di superlavoro. Il superlavoro di Francesco il Fornaio č dovuto ai dolci. Si fanno dolci in ogni casa. A casa Laberi, «Mammą» e Angela dedicano ai dolci due «nuttątė u panė». Angela per i dolci č bravissima; ne fa di tutte le maniere: crustoli, struffoli, cartellate, calzonicchi, taralli, trecce, e soprattutto pettole.

«Tandė kańńė škittė ‘a formė; cė fannė tuttė ki stessė kąusė: farčinė, ličvėtė, oġġjė, zukkėrė, nu morsė dė včinė bėjanġė, kuannė servė nu morsė dė fėnukkjė dovėcė. Pi pettėlė perņ, ke so propėjė kąusė dė Peskėcė, c’allonġė mmezz’i manė nu punėjė dė pasta krėššņutė, e cė frejė; kuąnnė so’ frittė cė mettė u zukkėrė, o u mėstėkottė, o, sė cė sta, u mąilė; e kuąlėke pettėlė cė jenġėjė pņurė ki lčicė salątė e ‘a rėkotta salątė.»

Anche i pasti, occasioni di comunione della famiglia, seguono i riti della tradizione. La vigilia di Natale č vissuta in attesa del cenone: il cenone č il culmine del culto della famiglia, che si riunisce tutta, per quanto possibile, intorno al focolare della casa del padre, e al presepe, che č rappresentazione sacra della famiglia. A mezzogiorno, in attesa del cenone, quasi tutti praticano il digiuno; mentre sullo spiazzaletto di fronte al forno, fin dal giorno precedente, compaiono alcune bancarelle di pesce - alici, triglie, cefali, merluzzi, raccolti in ceste o sporte - e di leccornie - dolci, fichi secchi, ciambelle, nocciole - offerti a gran voce dai venditori.

Il cenone a casa riunisce tutta la famiglia di «Nonnņ»: la famiglia di Papą e quella di zio Luigi al gran completo, con i ragazzi, Aldo, Ettore e Mimģ, rientrati dagli impegni scolastici. La tradizione vuole che in un Natale si faccia il cenone a casa di Papą, nell’altro a casa di zio Luigi; e poi ci si ritrova tutti insieme la notte di Capodanno a casa dell’uno, se il Natale č stato fatto a casa dell’altro. Il menł del cenone č a base di pesce e verdure. «Mammą» fin dall’alba comincia a cucinare una sequela interminabile di piatti: pesci, di tutti i tipi che trova, arrostiti o fritti, cavolfiori lessi, baccalą infarinato nella pastella, cavolfiori e baccalą, patate gratinate. «Mammą» mi ha insegnato a prepararle, le patate gratinate, che trovo squisite: le patate vengono sbucciate, ridotte a pezzi, mescolate con pane raffermo e formaggio pecorino grattugiati, condite con aglio, prezzemolo e olio, versate in una tortiera e cotte nel focolare tra due strati di carbone rovente, uno sotto il treppiedino, l’altro sopra il coperchio della tortiera.

Il cenone dura fino a tarda ora. «Mo jamė o’ prėsepėjė» decide Papą a un certo punto. Prende Paolo in braccio e guida la comitiva.

«‘U vi, Pallėpą, jč nnatė u Bammėnellė. E tutt’i kannąilė du prėsepėjė cė so’ ‘ppėcciątė.» Ha fatto lui le operazioni, da solo, di nascosto, qualche minuto prima. Angela s’inginocchia, seguita da «Mammą» e dagli altri; e guida la recita di un ‘Padre, Ave, Gloria’.

«Mo putčimė jģ a vėdč ‘a fanąujė» dice Papą alla fine.

Ci copriamo - fa freddo - prendiamo una lanterna a petrolio e andiamo tutti insieme verso il sagrato di Sant’Antonio. Appena fuori della Porta del Ponte si intravede, al di sopra delle case, un chiarore rossastro e qualche scintilla che vola verso il cielo e si avverte un odore acre di bruciato; l’odore aumenta man mano che procediamo; sul sagrato tra una ressa di gente, soprattutto ragazzi, arde un grande falņ, che la gente stessa alimenta.

«Cė fukčjėnė škittė i kąusė ke nan zervėnė kkjł» mi dice Angela. «Jč akkąumė sė vņunė vulčssė kjņudė na paggėna bruttė e rapģrnė vņuna nąuė.»

La folla poi si disperde per partecipare alla Messa di mezzanotte, alla Chiesa Madre. Don Michele pure a Natale č impegnato come non mai. Prima il presepe, poi le messe, tante, frequentate tanto! Il giorno di Natale molti seguono tre messe: quella di mezzanotte a Sant’Elia, quella dell’aurora a Sant’Antonio e un’altra nel corso della mattinata. La messa di mezzanotte č affollatissima: molti - non i notabili, che hanno posti riservati nelle prime file, davanti all’altare - arrivano portando, sulla testa o sotto il braccio, sedie o seggioline impagliate; le famiglie in Chiesa restano unite: a Natale viene meno la separazione usuale tra femmine e maschi; ed č festa grande per tanti innamorati, per i quali la possibilitą di scambiarsi sguardi e di sfiorarsi una mano nella confusione equivale a una promessa di felicitą prossima. Sono tutti vestiti a festa: e tutti per le strade si fanno reciprocamente auguri, scoprendosi il capo, e alzando la mano in segno di saluto.

«Kumą Bėjanġł, agurėj’assąjė! E u fiġġjņulė? Krešė santė!»

Il pranzo di Natale č tradizionalmente per quanto possibile ricco. “Vuole essere uno scongiuro contro la miseria - spiega zio Raffaele - e un omaggio al Bambinello, che porta agli Uomini salvezza e felicitą.” Il piatto forte č maccheroni al ragł, con polpette di pane e formaggio grattugiato; e poi braciole di maiale, mele cotogne, uva mennavacca, dolci. Il pranzo di Santo Stefano č rallegrato dai sacrifici di Grugnino e dei suoi compari, che ne confezionano il piatto forte. «‘U kjamąmė kap’e pąidė» mi ha spiegato «Mammą». «Perņ cė stannė pņurė ‘a kąudė e i rekkjė, fattė a brąudė kė tuttė i vėrdņurė - verzė cėkorėjė škarąulė, accė - tuttė kundčitė k’oġġjė e kašė, nząimė ku panė nfussė.»

I camini in questo periodo non stanno spenti mai: restano accesi fino all’Epifania. “Il focolare nella percezione della gente - dice zio Raffaele - č simbolo di comu¬nione di vita e di affetti tra i componenti della famiglia: rappresenta un’immagine di quiete, di riposo, di pace, tra le tante durezze della vita.” Di notte, per risparmiare legna, «Mammą» ricopre di cenere un tizzone ardente che poi viene utilizzato la mattina seguente come esca per rivitalizzare la fiamma. Nella notte di Natale perņ la fiamma deve brillare sempre viva e scoppiettante. «Tanda krėstėjanė» mi ha detto Angela «cė kredėnė ke ‘a nottė dė Natalė ‘a Madonnė šėnnė de cėmėnąirė pė ssuką i pannulčinė du Bammėnellė o’ kavėdė di cėppņunė.» Vengono utilizzati in quella notte i cippi pił grossi e pił resistenti. Le feste di Natale si chiudono con l’Epifania: il giorno seguente si disfano i presepi e si riaprono le scuole.

* * * * *

“Durante il mese di gennaio, il paese infreddolito sonnecchia - argomenta divertito zio Raffaele. - Tutti se ne restano in paese fino almeno all’inizio di febbraio: i contadini liberi dagli impegni agricoli, i pescatori rispettosi degli umori del mare. Le donne filano, sferruzzano, cuciono, rammendano; gli uomini affrontano stancamente lavoretti di manutenzione: sistemazione di attrezzi agricoli, affilatura di lame, rammendi di reti da pesca, calafataggio di barche, riparazioni di basti, ferrature di cavalli e di somari; e, quando le condizioni del tempo lo permettono, vanno nei campi a far provviste di foraggio e di rape, o nei boschi a procurarsi legna da ardere. Tanti, soprattutto anziani e bambini, si riuniscono intorno al focolare acceso: e i nonni raccontano storie antiche, e i bimbi, quelli che vanno a scuola, raccontano i compitini. E tutti vanno a letto presto. Per risparmiare legna.”

“Loro sonnecchiano. Certamente dormirebbero proprio, se non ci avesse pensato la chiesa, e non ci pensasse Don Michele, a tenerli svegli. Sono le ricorrenze della Chiesa a tenerli svegli: da Natale, il giorno della nascita e della promessa, fino a Pasqua, l’apice del ciclo liturgico, il giorno della resurrezione dopo la morte, e della speranza; attraverso l’Epifania e la Quaresima. Noi non ce ne rendiamo conto, ma i nostri ritmi di vita sono cadenzati, certo dal ciclo delle stagioni, ma anche dalle cadenze del calendario liturgico. La nomenclatura stessa ha origini liturgiche: Epifania č termine che viene dal greco ‘epifaino’ e significa ‘manifestazione’, manifestazione appunto della divinitą di Gesł ai Magi; Candelora č termine che viene dal latino ‘candelarum’ e significa ‘benedizione delle candele: cade quaranta giorni dopo la nascita di Gesł, ed č la ricorrenza della purificazione della Vergine, perché quaranta giorni č il periodo di tempo dal parto durante il quale la tradizione ebraica ritiene che una donna che ha generato un figlio maschio resti impura; Carnevale č termine di derivazione latina, ‘carnem levare’, e significa ‘eliminare la carne’, con riferimento all’ultimo banchetto che precede il periodo di digiuno della Quaresima; e Quaresima č termine di derivazione latina, ‘quadrigesima dies’, e significa ‘quaranta giorni’, di penitenza s’intende, che precedono la Pasqua, a ricordo dei quaranta giorni trascorsi da Gesł nel deserto dopo il Suo battesimo nel fiume Giordano: anche se dura pił di quaranta giorni, perché nei giorni festivi la Chiesa non impone il digiuno e quindi le domeniche del periodo non si contano; cosģ il ‘mercoledģ delle ceneri’, il primo giorno di Quaresima, viene pił di quaranta giorni prima della Pasqua. Il mercoledģ delle ceneri! Qui ci vanno tutti in Chiesa. E Don Michele gli versa la cenere in testa, ricordando che ‘cenere sei e cenere ritornerai’. Ma la gente le parole neanche le sente. E, se le sente, non le capisce. E, se le capisce, le percepisce come percepisce il ritornello di una canzone. Non gli dą peso. Si mettono la cenere in testa, perché se la mettono tutti ogni anno quel giorno ... E quaranta, quaranta, quaranta! Che numero magico questo ‘quaranta’! Quaranta giorni dura il diluvio universale, quaranta giorni dura l’esodo del popolo Ebraico attraverso il deserto, quaranta giorni resta Mosč sul Sinai, quaranta giorni resta Gesł nel deserto, quaranta giorni impiega Gesł per istruire i discepoli tra la Resurrezione e l’Ascensione. Che fascino, questo numero! Quaranta! Perché tanta volte ‘quaranta’?”

Volevo ricordargli dei quaranta ladroni; ma non volevo dire una sciocchezza. Ogni tanto mi capita di ascoltarlo zio Raffaele, davvero affascinata.

* * * * *

Tutti attendono la Candelora il due febbraio, il giorno di mezzo inverno.

“«Kuąnnė kjąuė a Kannėląurė, da u vernė stčimė fąurė», dicono qui - ricorda zio Raffaele. - Ma lo sanno tutti che non sempre č vero: il tempo puņ rimanere ancora cattivo. E tutti, contadini, pastori, pescatori passano ore e ore a discutere del tempo che farą e si accaniscono a cogliere presagi dagli eventi naturali: i contadini pensano che, se alla Candelora piove o c’č vento, l’inverno dura ancora; i pastori assicurano che, se alla Candelora c’č erba buona per le pecore, il tempo volge al bello; i pescatori affermano che tutto dipende dalla fase lunare.

“I peschiciani - aggiunge zio Raffaele - durante l’inverno cadono in letargo, e solo a Candelora tirano fuori il naso dalla tana; per decidere se vale la pena di uscire nel mondo, o di ritornare nella tana; proprio come gli orsi! E le marmotte! Lo sai, Biancł, che Candelora in alcuni degli Stati Uniti č il ‘giorno dell’orso’, in altri č il ‘giorno della marmotta’? D’altra parte questo momento dell’anno, di passaggio tra inverno - scuro, sonno - e primavera - chiaro, risveglio - č suscettibile di tanti connotati poetici, che toccano la sensibilitą della gente.”

Dopo la Candelora Peschici comincia pił o meno lentamente a rivivere. Il Carnevale dą una scossa ulteriore al torpore dell’inverno. A Peschici come altrove si svolgono per quanto possibile festeggiamenti in comunitą, in cui si mescolano elementi giocosi e fantasiosi, alimentati dalla tradizione del mascheramento.

“Le maschere tradizionali di Peschici - mi racconta Ettore, che č a casa per alcuni giorni di vacanza - sono «Pakkjąnė» e «Karnuąlė». Pacchiana veste l’abito tradizionale tipico: camicia bianca sotto un corpetto di velluto nero, ricamato, gonna lunga bianca a strisce rosse, arricciata in vita, calzettoni di lana di pecora, «zokkolčttė», le pianelle a mezzo tacco, fazzolettone piegato a triangolo, legato dietro la nuca, grembiule scuro, «u zėnąlė», che si mette sulla gonna, scialle frangiato sulle spalle, assicurato con spilloni, un paio di collane, orecchini lunghi; Carnevale č la rappresentazione dell’uomo facoltoso che, abbuffatosi nel periodo natalizio, ne subisce gli effetti. Alcuni di noi, del gruppo teatrale dell’Azione Cattolica, si mascherano da Pacchiana o da Carnevale; e girano per il paese, giocando coi ragazzini e distribuendo qualche tozzo di pane e qualche po’ di cacio. Anche a Mariolina piacerebbe farlo; ma la tradizione vuole che si mascherino solo i maschi. Mariolina non capisce perché. E io non so spiegarglielo, perché non lo capisco neanche io. Perņ abbiamo deciso con Don Michele di preparare una rappresentazione dei ‘Promessi Sposi’, e forse pure di ‘Zeza Zeza’, la commedia d’amore di origine napoletana riscritta in dialetto peschiciano. In quelle Don Michele dice che farą recitare insieme ai maschi pure le femmine.”

Martedģ grasso, l’ultimo giorno del Carnevale, in molte strade appaiono fantocci che rappresentano «Karnuąlė», rigonfi di paglia col cappello stracciato, appesi trasversalmente alle stradine tra un camino e l’altro: li hanno preparati le donne del paese, in gruppi. Tutti fanno un bel pranzetto a base di maiale, che li prepari per la festa del pomeriggio.

“«Včinė», Biancł - mi dice Ettore, mascherato da Pacchiana, nel pomeriggio.

Sul sagrato di Sant’Antonio un corteo di gente mascherata – “da parenti di Carnevale” mi spiega Ettore - allegra, chiassosa, prende uno dei fantocci, lo dispone a cavalcioni di un mulo e lo accompagna, cantando, dal medico condotto, che aspetta il malato in Piazza Balilla. Il medico ausculta il malato in tutte le parti, anche - tra grandi risate dei maschi e grandi rossori delle femmine - in quelle intime, poi decide di tagliargli la pancia; lo fa, ne cava fuori stracci, pietrisco, radici, fichi secchi, che distribuisce attorno, e infine un maccherone gigantesco, origine dei malanni del fantoccio. E tutti ridono, applaudono, e gridano in coro: «Kannarņutė! Kannarņutė! Kannarņutė!» E il medico dice grave: «C’ą murģ!» E altre grida e lacrime finte e risate. Rimettono il fantoccio, o quello che resta di lui, sul mulo, che č stato lģ ad aspettare tranquillo, lo accompagnano fino allo scalandrone, oltre la Porta del Castello, lo prendono in due, dai due lati, per le mani e i piedi, lo fanno oscillare avanti e indietro in direzione della balconata - mentre gli altri accompagnano in coro: «Aaaą, oooņ! Aaaą oooņ!» - e finalmente lo lanciano nel vuoto, tra gli applausi generali; mentre alcuni bambinelli salgono sulla balaustra, e si sporgono senza remore per seguire il volo. La gente, maschi da una parte, femmine dall’altra, prende allora a ballare e a cantare nel recinto del Castello, davanti la caserma dei Carabinieri. Chiedo a Ettore di riaccompagnarmi a casa da Paolo. Mentre procediamo, noto, qua e lą nelle stradine, altri fantocci che, dati alle fiamme, bruciano.

La Quaresima ha inizio il giorno dopo, mercoledģ delle ceneri. La domenica successiva, la prima di Quaresima, Papą si presenta a casa con un orcio di creta panciuto, tenendolo per i due manici.

«Pallėpą! Včinė a Nonnņ! Cė sta ‘a pėńatė!»

Mentre Paolo gattona verso di lui, Papą lasca cadere l’orcio a terra; l’orcio si spacca. Paolo si spaventa e atteggia il musino al pianto. Dolci e caramelle fuoriescono dall’orcio frantumato. Paolo, passando istantaneamente dal pianto al riso, agguanta un dolcetto. Papą comincia a sussultare, scosso dalle risate, si china su Paolo, lo solleva tra le braccia, gli affonda il viso sulla pancia, avvisandolo: «Pallėpą, mo tė mańė!» mentre pure Paolo ride a squarciagola.

Č l’ultima eco del Carnevale. Si entra poi nell’atmosfera della Quaresima. Don Michele infittisce le sue prediche; tutti, anche quelli benestanti, osservano regole di digiuno; i pasti, abitualmente scarsi, diventano essenziali - legumi, cicoria, rape - le chiese sono pił affollate.

* * * * *

In primavera, appena il tempo si assesta, la gente riprende a darsi da fare, perché i campi e il mare siano in grado nel corso dell’anno di fornire i prodotti necessari alla vita.

“La primavera č il ritorno alla vita - declama zio Raffaele, - č la vittoria della luce contro il buio, della vita contro la morte. Non č un caso che la liturgia preveda la Pasqua di resurrezione in primavera!”

Angelantonio al Renazzo, aiutato da Nunziatina e da Annuccia, č presissimo dalle attivitą dell’orto, della vigna, dell’agrumeto. L’orto sta vicino al pozzo in zona sabbiosa - tutto il podere č sabbioso! - non ombreggiata da arbusti di alto fusto, non lontano dalla porcilaia: č circondato da tutti i lati da una siepe di fichidindia, mantenuta per tre lati non pił alta di un metro; verso nord la siepe č pił alta, ed č rinforzata da una doppia barriera di canne, che riparano l’orto dai venti del nord.

«I vendė friddė venėnė da nordčst u ġrąikė, da nord ‘a tramundąnė» m’ha ragguagliato Mammą. «Spissė trašė pņurė u majėstrąlė da nordņvest. L’ąkkuė p’addakkuą vąinė do puzzė; e u kungčimė včinė do fumąirė du rėcindė di porkė. ‘A fenzė nan fa trašģ i porkė o kuąlėke cėńńalė o i vulėpė o kuąlėke avėtė nėmalė salėvąggė.»

Il terreno dell’orto č in leggera pendenza da nord verso sud: Angelantonio lo mantiene ondulato con canali paralleli tra loro e perpendicolari alla pendenza; gli ortaggi li pianta negli avvallamenti dei canali; sul lato nord, il pił elevato, una vasca in muratura, accostata alla siepe, con un paio di rubinetti quasi a livello del suolo sul lato che guarda i canali, e un paio di brocche di alluminio, appoggiate sul bordo.

«St’ortė, ke sta sąup’a rąinė, vo ąkkuė, tand’ąkkuė» mi spiega Mammą «pėkkč l’ąkkuė cė nfčilė jind’a rąinė subbėtė, e nan fa a ttembė a dą sustąnzė a kuillė ke sta sumėndątė. Jangėlandņnėjė c’ammąkė a mettė tėrrčinė sąup’a rąinė pė fa rumanč l’ąkkuė nu morsė dė kkjł, e u tėrrčinė ‘u trąuė akkuattłrnė, paġġjė e pambėnė d’ņuė, e u fumąirė di porkė: Fajėlłccė dčicė ke cė kjamė pacciamatąurė. E ‘a rąinė akkušģ cė fatčjė meġġjė … L’ortė na’ ńč ġrossė ma cė vo tanda fatėjė. Kapėkodaląnnė. Ą prėparą i rasėlė, ą kkjandą, ą kungėmą, ą ‘ddakkuą, ą zappą. Ą ‘ssistė l’ortė a sėkondė di stašņunė. Akkuą pė ‘ddakkuą ą tėrą l’ąkkuė do puzzė, a sikkj’a sikkjė, ą jenġėjė dąujė kuartąrė sėstėmatė sąup’u mņulė, l’ą sduaką jind’a na tčinė akkjł ġrossė e po ki kuartąrė l’ą purtą a ońńė makkjarčllė. Kuąnnė kapėtė pņurė dąujė volėtė ‘o jurnė. E pė kungėmą ą jenġėjė ‘a karėjąulė e ka palė ą spalėją u fumąirė a palątė vņunė apprčss’a l’avėtė. Ą kjandčimė Jangėlandņnėjė ‘a tąinė nnanz’a kasčllė.

«‘U vi, Bėjąnġł, a stu kuartė d’ortė Jangėlandņnėjė c’akkjąndė škittė l’aġġjė e ‘a cėpollė, da stata vannė u vasėlėkąujė, u pėtrėsčinė e i bbastunąkė … Mendrė all’atu kuąrtė a sėkondė d’a stašąunė, ‘a ‘stačjė e u vernė, c’akkjąndė marangiąnė, favė, kėkuccčllė, papėrłššė, patąnė, e tanda pėmmėdąurė, e po verzė, ġġjąitė, škarąulė,’nzalątė, spėnacė, e vrokkėl.»

La vigna si estende per la pił gran parte del podere per pił di un ettaro in filari paralleli, lunghi un’ottantina di metri.

«Ą vėdč ke cė vo pa vińńė! Tu ‘u včidė ke pezzė d’omėnė jč Jangėlandņnėjė! O’ Rėnazzė cė stannė cėndėnarė e cėndėnarė dė fėlarė kė kkjł dė cinġėmčila makkėjė.»
«“Patrņ, kuģllė so’ kkjł dė cinġė kėlņmėtrė d’ņuė ” mė dčicė ońńė tandė. E i včitė na’ vvannė škittė akkjandątė, ma pņurė trattątė ońńė annė! ‘A vińńė vo jessė zappątė, spruątė, attakkątė e’ palė, ą luą ‘a jerėvė, l’ą pumbėją ku verdėrąmė e ku zulėfė, prčimė kė vąinė u kavėdė … Ma Paulłccė tąinė ‘a kapa freškė! E vo u včinė!»

L’agrumeto contiene una trentina di alberi.

«Nan gė nė stannė assąjė» mi dice Mammą. «A Peskėcė kėmņunė e portająllė so’ ppąukё, e i krėstėjanė manġė tenėnė pratėkė. E po o’ Rėnazzė u tėrrčinė jč rrąinė, u ġrąikė portė i škindė d’ąkkuė dė marė - a Rąudė ‘i kjamėnė “pulvėrčinė” - ke, kuąnnė arrčivė, arruučinė i ggiardčinė. E, sė n’arbėlė c’arrņńńė, cė vonnė tre o kuatt’annė pė rėpėġġjarėcė. Tandė kuąndė cė nė vonnė p’addņucė i prčimė fruttė. A Rrąudė e a Vvčikė cė nė stannė dė ggiardčinė: pinzė ke ‘i vennėnė pņurė a’ Merėkė e a’ Russėjė, da k’u sapė kuand’annė. E ppė kuistė ke Paulłccė, kapa freškė, vo u ggiardčinė: pėkkč ‘i tenėnė a Rrąudė, i ggiardčinė, e pėkkč ‘u tąinė zė Nėkąulė a Rrąudė, u ggiardčinė!»

L’agrumeto del Renazzo, circondato, come l’orto, da una siepe di fichidindia, č diviso in quattro cinque porzioni - «i kuąrtė», le quadre le chiama Mammą - e ciascuna porzione č protetta da barriere di canne contro il vento e il polverino.

«Mo dė sti tembė Jangėlandņnėjė, ke ą ggią prėparątė u tėrrčinė, ą zappatė, ą fattė ‘a konġė attłrnė a ońńė arbėlė pu kungčimė, mo l’ą spruą, ą luą i rėpullė, c’ą sta ‘ttendė e’ malatčjė, l’ą lavą fronnė pė fronnė a’ sąirė, kuąnnė addėfreškė.»


(2.5 cont.)


NB1. Per seguire meglio la narrazione, elenchiamo di seguito i link delle puntate precedenti.

Cap.1
(1) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5363
(2) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5369
(3) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5410
(4) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5435

CAP. 2
(1) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5487
(2) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5523
(3) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5559
(4) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5628
(5) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5656

CAP. 3
(1) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5709
(2) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5734
(3) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5751
(4) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5779
(5) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5811

CAP. 4
(1) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5851


NB2. Si puņ facilitare la lettura dei periodi idiomatici tenendo a portata di mano la tabella dell’Alfabeto Peschiciano scaricabile da www.puntodistella.it/public/file/periodici/alfabeto_pds.doc


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