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19/07/2012

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DIALETTI: UNA PIETRA NELLO STAGNO

Clicca per Ingrandire Martedì 17 luglio, location sala consiliare “G. Azzarone” del Comune di Peschici, si è tenuto il tanto atteso “1° Forum dei dialetti garganici” (foto del titolo; nd). L'evento organizzato dall’Associazione “Punto di Stella” in collaborazione con il Comune di Peschici e l'Accademia del Trabucco si è fregiata della partecipazione di notevoli presenze fra cui quella del glottologo Nando Romano (foto 1 sotto) e di tanti amici esperti di dialetti che, col loro apporto (foto 2), hanno tentato di fare chiarezza sugli aspetti linguistici del dialetto delle tre cittadine scelte in questo primo appuntamento: per Rodi Garganico Vincenzo Campobasso (foto 3), per Vico del Gargano Maria Rosaria Vera (foto 4), per la città ospitante Paolo Labombarda (foto 5).

Doveva intervenire anche il vichese Giuseppe Maratea ma un fastidioso contrattempo glielo ha impedito. Ha comunque inviato un messaggio all’organizzazione in cui si legge: “Una fastidiosa bronchite e una persistente febbricola mi impediscono di essere stasera a Peschici e mi costringono a declinare il gentile invito per l'incontro che - sono certo - offrirà contributi interessanti per una ‘sistemazione’ organica e meno casuale dei dialetti del Gargano. Qualche amico può confermare con quanto entusiasmo mi proponesti di partecipare alla ‘serata’ e quanto cocente sia la mia delusione per l'assenza. Ma il caldo e l'età non offrono generose possibilità curative. Peschici, poi, anche d'estate, nonostante tutto rimane bellissima e, seppure sbiaditi, conserva ancora i suoi caratteri distintivi. Siamo spesso scontenti di come vanno le cose. Scontenti, ma non scorati. L'incontro di questa sera lo dimostra. Occorre insistere. E' il classico ‘provare e riprovare’ del filosofo. ‘Provando e riprovando’, il responso per Peschici e per tutta la Montagna Sacra potrà essere benigno. E' questo l'augurio che alimenta le comuni speranze”.

La serata è stata moderata da Piero Giannini direttore Editoriale del giornale telematico “new Punto di Stella” che fra i ringraziamenti ne ha inserito uno particolare all’artista Lidia Croce che ha voluto dedicare una sua tela al Forum (foto 6 e 7, part.). Esposta in Aula, è stata illustrata brevemente dal direttore: “Letta dal basso verso l’alto, da una nebulosa e imprecisa massa di personaggi, che gradualmente però prendono forma e consistenza, si arriva a un unico individuo, in alto, sovrastato da un oggetto volante proveniente dallo spazio a ricordarci la nostra pochezza e limitatezza. Cosa significa il tutto: dall’alto di una condizione privilegiata - il vichese, quasi biblico, Monte Tabor che abbraccia in un solo sguardo il mare col profilo di Peschici (a dx) e Rodi (a sx) - i dialetti, semplici grugniti della protostoria (la massa informe alla base), via via si concretizzano, si distribuiscono geograficamente (gli archi di cerchio in cui sono racchiusi) e tendono verso una regola (il volto chiaro, netto, distinto, preciso, quasi didattico) che, nella più totale autonomia fonetica, riesce a permettere loro il passaggio dal fonema al grafema. in parole povere: a essere scritti”.

Alla presenza delle autorità intervenute - locali: sindaco Domenico Vecera e delegato alla Cultura Leonardo Di Miscia, e dei Comuni invitati: assessore alla Cultura Concetta Bisceglie (Comune di Rodi) e consigliere Oscar Lanzetta (Vico) - l’evento si è svolto in diversi momenti. Dopo la presentazione iniziale del moderatore e i saluti ai presenti, la parola è passata a Paolo Labombarba che ha “gettato la prima pietra nello stagno” spiegando i motivi che lo hanno spinto ad appassionarsi tanto allo studio del dialetto peschiciano. Ha così passato in rassegna in modo attento e particolareggiato il percorso che, insieme agli studiosi dell'Accademia del Trabucco, lo ha portato alla concezione-creazione della “Grammatica peschiciana” (foto 8).

Centrale l'intervento del dialettologo Nando Romano che ha stuzzicato i presenti in sala (foto 9) con una serie di interrogativi sul “si deve o no scrivere in dialetto” o sul “come si parla il dialetto”. Interessante la sua relazione intitolata “Blasit Agol zei” (una delle sette epigrafi daunie) scritta in onore e ricordo di un suo docente e carissimo amico, Oronzo Parlangèli. Due le esigenze affrontate: la prima connessa alla rivendicazione e conservazione o meno dell'identità in tutti i suoi aspetti e in “primis” la lingua. “Quando si rinnegano le proprie radici si costruisce la vita senza fondamenta” ha spiegato. La seconda è una domanda di chiarezza che investe il settore specifico degli studi: la Dialettologia italiana. Si chiede, in parole povere, di divulgare che cosa sia un dialetto, come si studia, quali le caratteristiche del vernacolo del posto e se c'è la possibilità dell'uso di questa lingua nella comunicazione quotidiana. Il relatore ha presentato in chiusura un cd-rom contenente materiale per lo studio dei dialetti garganici e ha espresso il desiderio che “sarebbe davvero bello pensare che i nostri giovani ne utilizzino l'alfabeto, codice magico per scrivere gli sms in dialetto”.

Il moderatore ha passato quindi la parola a Vincenzo Campobasso che in maniera a dir poco accattivante ha carpito l'attenzione dell’uditorio con la lettura di suoi testi poetici letti e interpretati in dialetto rodiano - «Riudrò forse», «Lo Tsunami», «San Valentino» - riletti in italiano da chi scrive (foto 10). Altro bel momento quello di Maria Rosaria Vera che ha contribuito per il dialetto di Vico del Gargano facendo considerazioni generali sulla lingua e recitando due suoi testi poetici «’A terrë du Garganë» e «Zia Nennë». Al termine della serata si è passati al dibattito con le curiosità del pubblico soddisfatte dai relatori.

Camilla Tavaglione


SCHEDA 1 = ALFABETO PESCHICIANO

/A/ /a/ a artë arte
/B/ /b/ bi bèllë bello
/C/ /c/ cci ciàilë cielo
/D/ /d ddi dannë danno
/E/ /e/ e lettë letto
/Ë/ / ë/ šëuà burrë
/F/ /f/ effë ferrë ferro
/G/ /g/ ggi giakkë giacca
/Ġ/ /ġ/ ġġi ġabbà gabbare
/I/ /i/ i cittë zitto
/J/ /j/ ji ji io
/K/ /k/ kki kartë carta
/L/ /l/ ellë lanë lana
/M/ /m/ emmë manë mano
/N/ /n/ ennë nasë naso
/Ñ/ /ñ eññë piñàtë pigna
/O/ /o/ o monëkë monaco
/P/ /p/ ppi panë pane
/R/ /r/ errë ramë ramo
/S/ /s/ essë sanė sano
/Š/ /š/ eššė škatëlë scena
/T/ /t/ tti tavëlë tavolo
/U/ /u/ u umëdë umido
/V/ /v/ vvi vàitrë vetro
/Z/ /z/ zetė mazzë mazza


SCHEDA 2 = ALFABETO RODIANO

L’alfabeto rodiano, tranne che per alcune peculiarità, non differisce da quello della grammatica italiana. Lo riportiamo di seguito, con le opportune annotazioni e precisazioni.

1. A, a (À, à): questa vocale ha sempre suono aperto, pertanto, riteniamo superfluo accentarla, a meno che, nei polisillabi, l’accento grafico non corrisponda a quello tonico: ass, bbarr, cassc’, latt, lazz, matt,, mazz, patt, pazz, ecc.; cacacàzz, cacasòtt, casckavàdd, patatràcch’, ecc; patàcch’, c’trànguəl’, m’lànguən’, nnànguəl’, ecc. La si accenta, tonicamente, quando è monosillabo: p.es; ‘a jà (la a), ed, ovviamente, quando è desinenza di parola tronca: cantà, car’tà, l’bbertà, sud’cà, sunà, quaqquaraqquà, ecc.

1.1., ä (con dieresi, che non muta il suono della vocale, ma fa sì che si distingua come specifica preposizione, nei complementi di termine, come ä mmè, ä ttè, ä gghjìss/jjìss, ecc, di moto a luogo o di stato in luogo, come jì ä mmèr’, sta ä mmèr’ od in quello che, nella grammatica spagnola, è detto accusativo personale, es: stèngh’ asp’ttànn ä ttè, sto aspettando te)

1.2., ă (con accento concavo, ma con suono sempre aperto, per contraddistinguere alcune persone dell’ausiliare avè: ă fatt, ămma fatt, ăvíta fatt, ănna fatt, hai fatto, abbiamo fatto, avete fatto, hanno fatto [mentre poniamo l’accento grave del suono aperto, alla 3^ p.: à ffatt])

2. B, b: ha il suono della b. italiana in bacio, barba, barca ecc, ma, nelle parole rodiane inizianti per tale labiale, questa non è mai semplice, bensì sempre doppia, vuoi per una questione di aferesi, vuoi per altre ragioni legate proprio alla pronuncia rodiana: bbajà (aferesi, abbaiare), bbanèn’ (banana), BBarb’r’ (Barbara), bbèll (bello), bbrùtt (brutto), ecc; è semplice all’interno delle parole, quando preceduta da labiale /m/ o da altra consonante: bbambín’ (bambina), bbamb’l’ (bambola), bbann (bando), bbannà (sbandare), bbombaló (ciondolo), cumbèr’/cumpèr’, fùrb, furbacchjón’; doppia è anche quando in italiano è semplice, all’interno della parola: carabbín’ (carabina), ciabbàtt (ciabatta, sandalo), ecc

3. C, c: semplice o doppia, preceduta o meno da altra consonante (diversa dalla esse, che ne modifica il suono: cfr sc, ssc): ha il suono aspro quando, come in italiano, incontra le vocali /a-o-u/: canèl’ (canale), cappòtt (cappotto), accóm’ (come), cós’ (cosa), cùgghjə (ernia), cummèr’ (comare), cumbèr’/cumpèr’ (compare); ha suono dolce, quando incontra le vocali /e-i/, oppure una muta, che indichiamo con un segno di elisione /’/: Cecchín’ (Cecchino, Franceschino), cèrquəl’ (quercia), cèst (cesta), cíc’ (cece), cìst (cesto), c’stín’ (cestino), c’stùnjə (tartaruga). Per rendere il suono aspro, in presenza di queste vocali, facciamo ricorso all’italiana acca /h/ [che, presente, pur per altre ragioni, nell’alfabeto latino, qualche Autore ha chiamato con il nome volgare romanesco di “mignotta”, meretrice]: bbecchín’ (becchino), bbucchín’ (bocchino), c’chèl’ (cicala; canocchia), c’chèt’t’ (cieco), masch’r’ (maschera). Relativamente alla /c/ finale di parola: se deve avere il suono dolce, si pone il segno di elisione: cíc’ (cece), díc’ (dice), dùd’c’ (dodici), forb’c’/fròff’c’ (forbici), líc’ (alice), quìn’c’ (quindici), trìd’c’ (tredici); se quello aspro, le si affianca l’acca /h/: arch’ (arco), march’ (marca, marco [moneta tedesca]), pacch’ (pacco), parch’ (parco), pòrch’ (maiale, porco), pùrch’ (maiali, porci), spacch’ (spacco, fenditura), trìcch’-tracch’ (piccolo fuoco d’artificio), trùcch’ (trucco), varch’ (barca), vasch’ (vasca); in altri Autori, in qualunque posizione si trovi, si fa ricorso alla cappa /k/, che noi usiamo in pochissimi casi, come si vedrà.

3.1. Ch, ch: sostituisce la lettera K, k, anche in parole straniere, come Kenia, che diventa Chènjə, Kilimangiaro, che diventa Chilimangèr’. La conserviamo in Km, acronimo di chilometro, ch’lòm’tr

3.2. Chj-, chj-: è grafema di un fonema difficile da riportare, in quanto il suono lo si può apprendere solo da chi parla il dialetto. A lungo abbiamo accarezzato l’ipotesi di usare il Χ, χ (chi-greco); ma, per evitare appesantimenti, anche perché non avremmo reso il dovuto suono, ci abbiamo rinunciato. Dunque, parole come càcchjə (biforcazione di rami), chjant (pianto), chjazz (chiazza, piazza), chjés’ (chiesa), chjóv’ (chiodo; piove), chjús’ (chiuso; ripostiglio), rècchjə (orecchia/o), sìcchjə (secchio), vìcchjə (vecchio), vìnchjə (sottile e lungo virgulto) e sim, vanno apprese direttamente da chi parli il dialetto rodiano.

4. D, d: semplice o doppia, si legge regolarmente come in italiano: dam’ggèn’ (damigiana; volg.arc cam’scèn’), dammèjə o dann (danno), dènt (dente), dìnt/dìnd (denti), jìnt/jìnd (dentro), jìndr/jìntr (dentro, interiora, alias “coratella”). La parola inizia con la doppia /dd/ o per aferesi o per naturale raddoppiamento dovuto a presenza di monosillabo “forte”: dd’murà (attardarsi, far tardi), ddummannà (chiedere, domandare); à ddìtt (ha detto; ma ă dìtt, hai detto), che stă/sta ddíc’? (cosa stai/sta a dire?) [però: che stă/sta d’cènn?, cosa stai/sta dicendo?).

5. E, e: può essere con suono aperto, indicato con accento grave o con suono chiuso, indicato con accento acuto. Gli accenti vengono sempre espressi, anche nei monosillabi.

5.1. È, è: aperta: cènc’ (cencio, strofinaccio), chèn’ (cagna, cane), fèvc/fèv’c’ (felce), f’nèstr (finestra), jənèstr (ginestra), manèt’ (manata, colpo di mano), manètt (manetta), mèn’ (mano), mèn’l’ (mandorla), mèr’ (mare), mètt (mettere), mèzz (mezzo, metà), m’nèstr (minestra), spajètt (spaghetto [pasta], spavento), spèr’ (spari, cercine), tèrz (terzo), trèzz (treccia), ŻŻèr’ (Zara);

5.2. É, é: chiusa: jér’ (ieri), luuér’/luvér’ (vero, il vero), nér’ (nera), pér’ (pera), sér’ (sera, siero), sfér’ (sfera, lancetta), żżér’ (zero). Poche sono le parole con presenza di più /e/: la prima (presente in italiano) viene in genere trasformata in /a/: telefono dà talèf’n’, televisione (come neologismo) è detta talevisión’ (pop) o televisión’

5.3: quando più /e/ siano presenti in una parola, prende l’accento, grave o, rarissimo, acuto, solo quella su cui cade l’accento tonico: elemènt, elemento, emiggljèn’, emiliano, emmén’!, dài!, forza!, sbrigati!, Ernèst, Ernesta, Ernesto, esèm’, esame, esprèss, espresso, caffè espresso, apposta, televisión’. Per la /e-muta/, quella che, sebbene espressa, in francese viene chiamata e-muet [e-muto o schwa], nelle nostre parole figura un segno di elisione: Lès’n’, Lesina [città e lago], l’s’nèr’, lesinese [agg o sost di Lesina]

6. Ə, ə: segno muto dell’alfabeto fonetico internazionale che, in rodiano, potremmo chiamare ‘a jè chep’sòtt. Non figura nel lemmario, nessun termine cominciando per tale segno. Altri Autori usano la normale /e/ [la famosa schwa] che noi non troviamo opportuno utilizzare, per evitare che il lettore sia portato a leggerla in modo espresso, quando, invece, è solo un segno per avvertire che la sillaba in cui è contenuta ha suono sordo. Non è mai sola, ma è sempre preceduta da /j/ semivocale/semiconsonante, sia internamente che alla fine di una parola: àjən’ (agnello), Ajətanín’ (Gaetanina), Ajətèn’ (Gaetano), còcchjə (cocchio, coppia), màcchjə (macchia), òcchjə (occhio), rècchjə (aferesi: orecchia, orecchio), sècchjə (secchia, tina), spècchjə (specchio), vècchjə (vecchio). Per la lettura del gruppo cchjə, cfr Chj-, chj-. E’ opportuno precisare che, come desinenza, non indica alcun genere, né femminile, né maschile, ma può appartenere indifferentemente a ciascuno dei due: c’còr’jə (cicoria, sf.inv), còr’jə (cuoio, sm, con variazione della desinenza interna per indicare il pl, cùr’jə)

7. F, f: semplice o doppia, preceduta o seguita da vocale o da consonante, conserva sempre il suono noto in italiano: fall (fallo [sport], fallì (fallire), farfàll (farfalla), farfús’ (moccoloso), farmacìjə (farmacia), f’ddìjà (affettare, fare a fette), ff’ttà (aferesi: affittare), fòrb’c’/fròff’c’ (forbici), favz (falso), frés’ (tarallo [pasticceria casareccia]), frèsck (fresca, agg), frìdd (freddo, agg/sost), frìsck (fresco), sfalt (aferesi: asfalto), sfurb’c’jà/sfruff’c’jà (sforbiciare, criticare, dire maldicenze)

8. G, g: valgono, in quanto applicabili, le stesse regole della C, c. Spesso, però, al posto della /c/ italiana, troviamo la semiconsonante/semivocale /j/: gamba garza gatta/o gettare giorno ecc, diventano jamm, jarż, jəttà, jùrn; peraltro, parole italiane con la /g/ iniziale, all’interno od alla fine di una parola, cambiano quest’ultima in /c/: gavetta diventa cavètt, sgombro (che, però, in italiano, è detto anche scombro), diventa scùmm’r’, sigaro diventa s’càrjə, sega diventa séch’, segare diventa s’cà

8.1. GG, gg: la doppia /g/ si trova sia all’inizio che all’interno od alla fine delle parole: curàgg’ (coraggio), furmàgg’ (formaggio), gagg’ (tizio, tizia, ecc), GG’ggín’ (Gigino/Luigino), lògg’ (loggia), magg’ (maggio), ragg’ (rabbia, raggio)

8.2. gghj-: come nel caso del gruppo grafemico cchj-, il fonema di questo gruppo lo si può apprendere solo dalla voce del parlante: àgghjə (aglio), ccògghjə (colpire, far centro), cògghjə (raccogliere), cùgghjə (ernia), fògghjə (verdura), gghjan’l’ (ghianda), gghjét’ (bietola), gghjút’ (andato), ògghjə (olio), scan’gghjà (sondare), sùgghjə (lesina), vògghjə (desiderio/voglia, voglio)

8.3. ggll-: è grafema del fonema che si assimila alla elle-mouillée (elle molle, dolce) francese [dove la elle è comunque preceduta da /i/: es, fille, da leggere fijjə] od alla doppia elle spagnola [es, caballo, da leggere cabajjo]. Avremmo potuto usare la consonante greca Λ, λ [lambda] raddoppiata, ma abbiamoi preferito rimanere nel nostro ambito. Così, scriviamo: cogglión’ (testicolo), magglión’ (maglione). uagglión’ (ragazzo/-a), żżabbagglión’ (zabaione o zabaglione), ecc.

8.4. gn-, ggn-: è grafema corrispondente alla spagnola /ñ/, adottata da alcuni Autori, come /gn/ semplice o, raddoppiandola /ññ/, come /ggn/. Noi preferiamo il gruppo /gn/ o /ggn/: magn (mangio, mangi, mangia), rùggn (rogna), saggn (sangue), nzòggn (sugna); ggnaggn’l’ (lamentela, petulanza), GGnés’ (aferesi: Agnese), ggnòcch’ (gnocca, gnocco), maggnà (mangiare)

9. H, h: lettera muta, di cui si è già parlato e che assume le medesime funzioni di rendere aspro, gutturale, il suono della /c/ e della /g/, quando seguita da /e, i/. Raramente si trova espressa in altri casi. Noi non la usiamo nemmeno quando risulta nelle forme verbali italiane dell’ausiliare avere, avè: ji ĕ fatt (ho fatto), tu ă fatt (hai fatto), jìss/jèss à ffatt (ha fatto), nújə ămma fatt (abbiamo fatto), vújə ăvíta fatt (avete fatto), lór’ ănna fatt (hanno fatto).

10. I, i: per lo più, si esprime come in italiano. Con l’accento grave, se ha suono aperto; con l’accento acuto, se ha suono chiuso.

10.1. Ì, ì: cìnch’ (cinque), cìnghjə/cìnchjə (cinghia), cuchìgghjə (tellina), cunìgghjə (coniglio), Cunżìgghjə (Consiglia), cunżìgghjə (consiglio), fìbbjə (fibbia), stìgghjə (attrezzo, strumento), strìgghjə (striglia).

10.2. Í, í: Cír’ (Ciro), nír’ (nero), tís’ (teso, dritto), vín’ (vino)

10.3. In alcuni casi, la /i/ italiana diventa muta in rodiano e, quindi, segue le sorti della /e-muta/, cioè non viene espressa ed è sostituita da segno di elisione. Non vediamo perché, infatti, esprimere una /i/ che non si legge o sostituirla con una /e-muta=schwa/, cosa che ha ancor meno senso. Così, p.es, Gigino diventa GG’ggín’ [per altri Autori, Geggín’ o GGeggín’, con una /e-muta/!], Lesina diventa Lès’n’ lesinese diventa l’s’nèr’, ecc. In altri casi, non potendosi esprimere la /i/, non essendo opportuno usare la /e-muta/, facciamo ricorso al segno /ə/ della fonetica internazionale, già trattato: Luigino diventa Luuəggín’.

13. J, j: è semivocale/semiconsonante, che non si trova mai sola, in qualunque posizione della parola; il suo fonema forma suono unico con la vocale od il suono muto /ə/, sempre espresso, che la segue:

13.1: ja, jà, jè, ji, jì, jí, jo, jò, jù, jú: jamm (gamba), jaggèn’, gabbiano, jamm’lèr’ (divaricatore di legno usato in macelleria), jènn (andando), ji (io), jì (andare), jèn’r’ (genero), jìnd/jìnt (entro, dentro), jìndr/jìntr (dentro, interiora/coratella), Mar’jín’, piccolo Mario, jojò, yo-yò [giocattolo cinese], jùnc’, giunco, d’jún’, digiuno

13.2; jə: Amàl’jə/Amàljə* (Amalia), Amèl’jə/Amèljə, Amelia, GGiùl’jə/GGiùljə* (Giulia, Giulio), jìjə (iperbole di ji, io), jənèstr (ginestra), Jənnèr’ (Gennaro), jənnèr’ (gennaio);

13.3: viene usata in molti casi: come eufonizzante, in presenza di altre vocali che risulterebbero cacofoniche dal loro incontro (es, ‘a à, che diventa ‘a jà [l’accento, che potrebbe anche essere facoltativo, è causato dalla presenza del monosillabo precedente]; per quanto meno necessaria, la usiamo anche quando seguono le altre vocali: ‘a jè, ‘a jì, ‘a jò, ‘a jù); può essere metamorfosi della /g/, come nei casi già sopra esemplificati [jamm ecc.]; si rende necessaria per richiamare l’attenzione del lettore su un grafema che, scritto in modo diverso, potrebbe far alterare la lettura [àgghjə, aglio, fògghjə, verdura/e, lùgghjə, luglio, ògghjə, olio, pàgghjə, paglia, ragghjà, ragliare, ràgghjə, raglio, sùgghjə, lesina – cfr ghj- e gghj-; Ajətanín’, Gaetanino, Ajətèn’, Gaetano – cfr /ə/; chjamà, chiamare, chjùmm, piombo, chjús’, chiuso – cfr chj-]. Rammentiamo che questi suoni palatali vanno appresi dalla voce del parlante (*: raro, ma non improbabile)

14. JJ, jj: è raddoppiamento della semiconsonante/semivocale /j/: la si trova preceduta da monosillabo: stèngh’ ä jjard (sto ad ardere/sto ardendo, bruciando), spìcc’t’ ä jjì (sbrigati ad andare); tù!?… e jjì!? (tu!?... ed io!?), jìss e jjèss (lui e lei), jèss e jjìss (lei e lui), ä jjós’ (a iòsa/a bizzeffe)

15. K, k: in rodiano, è consonante che non viene usata nemmeno nei nomi stranieri [cfr Ch]; vi facciamo ricorso (come altri Autori garganici) solo quando il suono sibilante dolce del gruppo /sc/ si trovi a precedere una /c-aspra/: ca, co, cu, oppure /che, chi/: casc-kavàdd (caciocavallo), masc-kètt (lucchetto), muscìsc-k (carne a listelli – vd relativo lemma), sc-kantìdd (bordo di pagnotta di pane), sc-kattà (crepare), sc-kattamènt (dispetto), sc-kètt (schietto) sc-kíf’ (schifo, spicchio), sc-kìtt (solo/soltanto). E’ un espediente per attirare l’attenzione del lettore sulla opportunità di scandire la parola che, se scritta senza /k/, es: casccavàdd, potrebbe causare maggiore difficoltà di lettura. Altri Autori la usano nel corpo od in finale di parola, per sostituire il gruppo /ch/ [es, cacasìck o, addirittura, cacasìkk] che noi conserviamo così com’è: bbúch’ (buco), cacasìcch’ (“cacasecco”, tirchio), dích’ (dico), dìsch’ (disco), fích’ (fico), mmachèr’ (magari), mmach’t’! (sbrigati!), nnacch’r’ (nacchera), pacch’ (pacco), pacch’r’ (“pacchero”, tipo di pasta alimentare), rìcch’ (ricco), sìcch’ (magro, secco). Laddove non sia necessario scrivere ch’lòm’tr, si fa uso del comune simbolo Km o km.

16. L, l: semplice o doppia, preceduta o seguita da vocale o da consonante, conserva sempre il medesimo suono che in italiano: alm (alma, anima), calm (calma, sf; calmo, agg), palm (palma; palmo), salm (salma, salmo), èlm (elmo), elmètt (elmetto), pòl’p’ (polipo, polpo), pòlp (polpa), pùl’p’ (polipi, polpi). Talvolta, presente nelle parole italiane (es, aglio, olio), assume fonema diverso in rodiano, con la conseguenza che, nel relativo grafema si assimila alla /g/ o si trasforma in /g/, raddoppiandola, ed assume il suono palatale del gruppo /gghj-/, àgghjə, ògghjə, ecc

17. M, m: come per la precedente consonante, conserva, di massima, il suono dell’italiano. Piuttosto, ha la forza di assimilare a sé eventuali altre consonanti che seguono: jamm, da ipotetica gamb (gamba), chjùmm da chjùmb (piombo, lat plumbum), cummàtt da ipotetico cumbàtt (combattere), ecc. In sua presenza, poi, la labiale /p/ tende a trasformarsi in /b/: camp (campo, sm o verbo, diventa, ma raramente, camb), campà (campare, vivere, anch’esso raramente, diventa cambà), cumpà (vocativo di cumpèr’/cumbèr’, diventa, cumbà o mbà: cumbà Francì!, mbà Pasquè!), cumparìz’jə/cumparìzie (l’essere compari, può diventare cumbarìz’jə/cumbarìzjə). N.B. L’uso della /b/ o della /p/, a Rodi, dipende comunque dall’estrazione sociale, dal grado di scolarizzazione [per il passato], nonché dal quartiere del paese in cui prevalentemente si risiede o si è risieduto. Di massima, esistevano cinque quartieri: a) mmèzz ‘a chjazz (zona che si estende dal Belvedere a tutta piazza Rovelli), b) capabbàssc’/chepabbàssc’ (tutta la zona al di sotto di Corso Umberto I e Piazza Rovelli); c) NNanzampétr [riportato in lapide come NNanz Sampétr, ma dai rodiani sempre pronunciato in unico flatus vocis, come da noi trascritto], comprendente tutta l’area compresa tra Corso Roma e le abitazioni insistenti su piazza San Pietro e vicinanze; d) vìja Madònn (dal Belvedere fino al santuario ed oltre, comprendente le zone limitrofe al C.so Madonna della Libera, come DDrét’ i chès’, u Cal’vàrjə e la parte compresa tra NNanzampétr ed il corso stesso); e) Mmezzaddàrjə, la zona ovest al di sotto del santuario, fino a Campomìll. Non si poteva fare e non si faceva un taglio netto tra le zone confinanti, dove i residenti potevano tendere a parlare in un modo piuttosto che in un altro. Oggi, in tempi di globalizzazione, quelle differenze sono quasi del tutto svanite o sono in via di definitiva scomparsa.

18. N, n: per lo più, non varia rispetto all’italiano. Talvolta, però, in determinati casi, staccandosi da una precedente parola, può appoggiarsi a quella seguente; talvolta, si assimila alla consonante seguente: nòn vèl’ ‘a pén’ può diventare nò nvèl’ ‘a pén’ oppure nò vvèl’ ‘a pén’; nòn v’ dích’! può diventare nò vv dích’; talaltra, senza modificarsi, staccandosi dalla parola precedente, si piazza come proclitica davanti alla seguente, raddoppiandosi o rimanendo semplice: dòn Antònjə* diventa dò nnAntònjə*, dòn Giuuànn/Giuvànn** diventa dò nGiuuànn/Giuvànn [*: oppure Andònjə, ma meno frequentemente che in Ntònjə, che quasi inesorabilmente diventa Ndònjə; **: normalmente, il nome è scritto con la doppia iniziale, GGiuuànn/GGiuvànn, che diventa semplice, proprio per la presenza del monosillabo che precede]. Quando la /n/ incontra la labiale /m/, la prima si assimila alla seconda, sempre con il meccanismo del distacco dalla precedente parola: dòn M’chél’ diventa dò MM’chél’, dòn M’mì diventa dò MM’mì; però, quando l’incontro è tra /n/ e /p/, la /n/ diventa /m/: dòn Pasquèl’ diventa dò mPasquèl’, dòn Pétr diventa dò mPétr.

19. O, o: come per la /e/ e per la /i/, può avere suono aperto o chiuso.

19.1: Ò, ò: suono aperto: bbòtt, botta, colpo, c’còrjə, cicoria, còr’jə, cuoio, pelle di grande animale, còst, costa, costo - raro, Ntònjə/Ndònjə, Antonio, ròtt, rotta – marin; rotta – agg. fem, sòtt, sotto – avv, il sotto – sm, vòtt, botte;

19.2: suono chiuso: cóm’, come, Cóm’, Como, dóm’, calmo, domato, tranquillo, Róm’, Roma, sóm’, soma, tóm’, pieno [per lo più, ripetuto, tóm’ tóm’, pieno pieno, parlando di persona ebbra]

19.3: all’interno di parole di genere maschile, si tramuta in /u/, costituendo desinenza interna del caso plurale, eventualmente passando dal suono aperto a quello chiuso, quindi cambiando l’accento da grave ad acuto: cùr’jə, cuoi, da còr’jə, r’gnún’, reni, rognoni, da r’gnón’, t’mún’, timoni, da t’món’. Quando presente come desinenza di parola italiana, si trasforma in /ə/, segno che conserva inalterato come desinenza plurale, come si è visto nel caso di còr’jə. Quando più /o/ sono presenti in una parola, viene accentata solo quella su cui cade l’accento tonico; le altre sono comunque sempre di suono aperto: d’ssonór’, disonore, monopàtt’n’, monopattino, Onòfr’jə, Onofrio, onór’, onore, Rodòlf/Rodòl’f’, Rodolfo

20. P, p: si legge come in italiano: padre, pètr; pepe pép’; porto, pòrt; puro, púr’, Si conserva per lo più invariata, tranne che, come abbiamo già visto, non sia preceduta dalla /m/: cumpà può diventare cumbà, ecc. Cfr M, m

21. Q, q; come in italiano, è sempre seguita da /u/. Però, al contrario dell’italiano, per rafforzarla, non la facciamo precedere da /c/, ma la raddoppiamo in /qq/, come, per l’italiano soqquadro [parola che, peraltro, non appartiene al vocabolario rodiano, che usa casín’, casino, parapìgghjə, parapiglia e sim]: aqquarìgghjə, acquerugiola, aqquarúl’, acquaiolo, àqquə, acqua, daqquà, annaffiare, irrorare, nnaqquà, allungare con acqua, quaqquarón’, lumaca. Caso eccezionale, per pasqua, abbiamo preferito rimanere vicino all’etimo latino, pascua, ed abbiamo coniato la parola pàscuə, lasciando comunque invariati i derivati, come Pasquèl’, Pasquale, pasquèl’, pasquale, Pasquín’, Pasquino/a (nome assai raro in rodiano)

22. R, r: semplice o doppia, si legge come in italiano e rimane invariata in qualunque posizione si trovi nella parola: ar’jə, aria, ariús’, arioso, arrét’, di nuovo, carrèr’, carraia, cur’jús’/curiús’, curioso, d’ carrér’, di corsa, presto, sbrigativamente, grassc’, abbondanza, Marìjə, Maria, Mar’jə, Mario, mar’nèr’, marinaio, marín’, marina, mèr’, mare, ras’l’, moltitudine di piantine o di altro, runfà, russare, dormire profondamente, rùvl, rovo, strùmm’l’, strobilo, pigna, trac’n’, tracina, trèbbjə, trebbia, trègghjə triglia, urgènt, urgente, vèrg’n’, vergine, v’rg’nèll, verginella, żżér’, zero, ŻŻèr’, Zara.

23. S, s: semplice o duplice, conserva il suono delle parole italiane: as’n’, asino/a, bbùss, bus/autobus, voce del gioco a tressette, aspr/jàspr, aspro, grasp, grappolo [d’uva], sant, santo, scan’gghjà, indagare, sondare, scann, scanno [raro], secca nel mare, scannatúr’, coltello per scannare, tavolo su cui si appoggiano le piccole bestie da macello, spèr’, spari, cercine, squagghjà, disciogliere, squagghjàr’c’l’, squagliarsela, sparire, ssassín’ [aferesi di assassín’], assassino, stunà, stonare, sunnà, sognare, vès’, vaso, vùzz, lumaca di scoglio [la famosa maruzzèlla napoletana]. Se preceduta da /n/, si muta in /ż/ [zeta dolce, come in zaino]: nżaccà, insaccare, comprimere, conficcare, nżalèt’, insalata, nżunnà, avere in sogno.

23.1. Sc, sc: il gruppo rimane sibilante, dolce, quando seguito da /e, i, k/, poche volte ad inizio parola: scèssc’l’, giuggiola, scèt’, fiato, scìgn, scimmia, sciúm’, fiume, sciùssc’, soffia, sciusscià, soffiare, sckant, paura, sobbalzo, sckantìdd, sezione periferica di pagnotta [romanesco culetto], sckat’l’, scatola, sckètt, schietto, sckíf’, schifo, spicchio, sckìtt, solamente, soltanto, sckuppètt, schioppo, fucile, casckavàdd, caciocavallo, fr’sckètt, fischietto, freschetto, vrúsc’, morbillo o scarlattina? ; ha suono sibilante duro con /ca, co, cu, che, chi/: p’scarìjə, pescheria, P’schèr’, Pescara, scann, scanno, tascappèn’, tascapane, schizzofrèn’ch’ [medic], schizofrenico, schizzofrenìjə [medic], schizofrenia, scóp’, scopa, scopo, scús’, scusa.

23.3. SSc, ssc: questo gruppo, con sibilante dolce, si trova per lo più con /e, i/ oppure muta con segno di elisione, sia ad inizio parola che nel corpo od alla fine: assc’, ascia, cassc’, cassa, èssc’, esce, jìssc’, esci, mùssc’, pennello di infiorescenze di canne per togliere polvere e ragnatele, passc’, pascolare, pèssc’, pesce, pìssc’, tu orini, pesci, scèssc’l’, giuggiola, ròssc’, rossa, rùssc’, rosso, sciùssc’, soffio, soffi, soffia, sciusscià, soffiare, sciuscià [shoe-shiner, lucidatore, pulitore di scarpe].

24. T, t: dentale che, semplice, spesso si intercambia con la /d/ [vd D, d], doppia, non si modifica mai e si legge sempre come in italiano: attènt , attento, attenzión’, attenzione, còtt, cotto, jatt gatta/o, matt, matto, pazzo, patt, patto, pètt, petto, ròtt rotto, sòtt, sotto, suttèn’, sottana, sottano [camera interrata], suttanín’, corta sottoveste, piccolo sottano, tressètt, tressette [gioco di carte napoletane], vòtt, botte, ecc

25. U, u: riporta l’accento grafico, se coincide con quello tonico; le altre /u/ eventualmente presenti nella parola od in una parola con altre vocali – sempre di suono aperto -, non vengono accentate (cucùm’r’, cocomero, pupulèr’, popolare [sigaretta del XXo fascista], pupulón’, persona chiassosa). Gli accenti, come per /e, i, o/, possono essere gravi, quando le /u/ hanno suono aperto: aùst, agosto bbùst, busto, chjùmm, piombo, crùst’l’, “crostolo” [dolce casareccio natalizio], ffruffrù, fru fru o frufrù [fruscio di vesti o interiez, ma anche un biscotto a cialde], frùsck’l’, fuscello, rùmb, rombo [pesce], rùmm, rhum o rum [liquore], stùmb, monco, vùnch’l’, baccello di fava o focaccia allungata, zùmb/zùmp, salto; possono essere acuti: ch’lúr’, colori, d’lúr’, dolori, dújə, due, s’cúr’, sicuro, s’lúr’, siluro, v’rdúr’, verdura, zuzzún’, sozzoni, sporcaccioni.

25.1. UU, uu: quando la doppia /uu/ ricorre ad inizio parola, sulla seconda riportiamo un accento circonflesso, per indicare l’accento secondario della parola che ha un accento primario: uûccér’, beccaio/ macellaio, uûcciarìjə, beccheria/macelleria, uûc’ddín’, agg di un particolare tipo di fico, uûlìjə, desiderio, uûlív’, oliva, olivo, uûnnèdd, gonnella, uûtèr’, altare (alcune di queste parole, hanno la prima /u/ intercambiabile con la /v/, cosa che comunemente avveniva in latino: vulìjə, vulív’, vunnèdd, vutèr’, che, come si nota, fanno esimere dall’usare la seconda /u/ con accento circonflesso. Da notare che alcuni Autori, invece della doppia vocale, usano /w/, bandita dal nostro vocabolario rodiano, a meno che non si debba usare come segno del linguaggio tecnico-informatico (www….., eccetera)

26. V, v: si legge sempre come in italiano. Si interscambia, talvolta, con la /u/ (come detto in 24.1.), talaltra prende il posto della /n/ (come detto in 17.).

27. W, w: come accennato sub 24.1., questa lettera è “bandita dal nostro vocabolario rodiano”, a meno che non debba essere usata trattando di linguaggio tecnico-informatico.

28. X, x: la si utilizza, quando necessario, se la si incontra a scuola e nel gioco del totocalcio. In altri casi, occorrendo scriverla, la si trasforma nel gruppo grafemico /ics/.

29. Y, y: come le due precedenti, è lettera estranea al vocabolario rodiano: la si incontra solo negli studi e la si vocalizza in jips’lònn

30. Z, z; ZZ, zz: semplice o doppia, senza particolari segni ha suono aspro (anche quando, in italiano è dolce [qui, la zeta dolce, per l’italiano, sarà sovrapposta da un puntino]; inoltre, può corrispondere alla /s/ italiana): bbòzz, bozzo/bernoccolo, cazzòtt, cazzotto/pugno, fazz’lètt, fazzoletto, Lazjə, Lazio, lazzarín’, lima per affilare coltelli, marz, marzo, mazz, mazza, mazzo, nazz, pieno, pèzz, pezza, toppa, pezzo, rèzz, “rete” che avvolge l’intestino, stazzión’, stazione, zampòggn, żampogna, zanchìgghjə, fanchiglia, zann, żanna, zapp, żanna, z’cch’nòtt, zecchinetta, zècch’, zecca [acaro], zèpp, pezzetto di legno, zìzz, mammella, seno, z’ncarèdd, żingarella, zòcch’l’, puttana, ratto, zompafùss, salta fossi, z’rubbètt, sorbetto, zùmp, salto, zumpà, saltare, zz’ccà, accostare, zzeccamúr’, “accostamuro” [gioco], zz’mà, agghindare, pettinare, zzuppà, battere.

30.1. ŻŻ, żż: ha suono dolce (ma non sempre ha corrispondenza con l’italiano, dove conserviamo il puntino sovrapposto): żżabbagglión’, zabaione/zabaglione, żżagàgghjə (ma anche zajàgghjə), legaccio, fettuccia di cuoio per legare [non corrisponde all’italiano żagaglia], żżajən’, żaino, żżajənètt, żainetto, żżatt’r’, żattera, żżażż’r’, zazzera o żażżera, żżébr, żebra, żżìnch’/żżìngh’, żinco o zinco, contenitore cilindrino per conservare l’olio, żżìrl, żirlo [verso del tordo], [sorta di] lumaca, żż’nż’nèdd (ma anche z’nz’nèdd), stalattite di ghiaccio [non corrispondente a quella di carbonato di calcio], żżòcch’l’, żoccolo o zoccolo, żżucch’latúr’, battiscopa, żżuèv’, żuavo [soldato], żżulù, żulu o żulù, żżùrr, becco [maschio della capra]

 Redazione (foto Libera Lamacchia)

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 20/07/2012 -- 18:18:36 -- vincenzo

Non ci sono parole, Camilla! Tutte le variopinte tessere sono state poste nei giusti luoghi e, fuori, è venuto un mosaico di inestimabile valore. Poi, mi congratulo con me stesso, per la mia tempestività, nell'inviarti l'ALFABETO RODIANO, che tu hai potuto saggiamente accostare a quello peschiciano. Spero proprio che la PIETRA NELLO STAGNO, sia anche stata la prima pietra per la costruzione di un castello della nostra garganicità, attraverso quel che, apparentemente dividendoci, ci accomuna: il dialetto.

 
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