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13/07/2012

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“VENTI DI GRECALE”: Il paese: una continua scoperta - 3° cap. (3)

Clicca per Ingrandire Zio Raffaele, una passeggiata dopo l’altra, mi mostra anche i posti di ritrovo del paese, soprattutto di maschi, in alcuni dei quali sarebbe sconveniente che le donne si presentino sole: il Municipio, la Posta, i giardini pubblici, il bar, che stanno nella zona moderna; il forno, la farmacia, il Consorzio Agrario, il barbiere, il tabaccaio, il giornalaio, all’interno del borgo; le tre chiese, due nel borgo, l’altra, Sant’Antonio, nella zona moderna, all’inizio della stradina per il cimitero. E vado a conoscere, anche, le botteghe di alcuni artigiani; qualche volta con zio Raffaele, qualche volta con Rosalba. “Biancł - mi ripete pił volte zio Raffaele, - qua a Peschici i fatti della vita vanno interpretati sempre nella stessa ottica: miseria grande, lavoro poco, soldi pochissimi, tempo disponibile tanto, pigrizia atavica. La gente dispone di poche cose: di quelle poche cose poi ce n’č davvero poco. Le cose da acquistare appaiono costosissime. Tutto ciņ che esiste, tutto ciņ che si possiede, ha valore enorme; e dura una vita, deve durare una vita, magari pił di una vita: papą e mammą lo lasciano in ereditą ai figli. Il pane si impasta a casa, qualcuno lo cuoce a casa, la lana si fila a casa, abiti e scarpe, quando ci sono, non si buttano mai, cosģ come mobili, vasellame, strumenti, bisacce: tutto viene riparato, adattato. Qui, l’autarchia che vuole Benito č da sempre un dato di fatto.”

Il forno sta in uno spiazzaletto di Via Castello: č a livello della strada, con la porta ad arco e una finestrina quadrata, tutte e due con le cornici in pietra. All’esterno, addossate al muro, fascine e fascine di legna, intorno a porta e finestra, sui muri, baffi scuri disegnati dal fumo; all’interno, il vano di una quindicina di metri quadrati, annerito dal fumo, con il pavimento mal livellato, ricoperto di farina e di cenere, č destinato per una buona metą alla camera di cottura. Al forno non si impasta. Si puņ perņ acquistare pane, che la moglie di Francesco impasta a casa sua. La camera di cottura, delimitata da pareti verticali in pietra che arrivano fino al soffitto, č posta su un ripiano orizzontale a poco pił di un metro di altezza; la bocca della camera rettangolare, con il lato pił lungo parallelo al ripiano, di dimensioni tali che un uomo puņ passarci attraverso, č dotata di un massiccio sportello metallico. Lo spazio sotto il ripiano della camera č utilizzato come ripostiglio per legna; una serie di trafilati metallici incastrati nelle pareti sostengono assi in legno, sulle quali sono appoggiati cibi da sottoporre a cottura, cibi appena cotti, e una cesta con il pane in vendita. Gli strumenti del fornaio - alari, soffiatoi, pale, forchettoni, pinze a molla, palette, spazzole, scopacce - quasi tutti in legno, qualcuno in ferro, sono in parte appoggiati a una parete, in parte immersi, per raffreddarsi, in una vaschetta ricolma d’acqua posta in terra ai limiti del ripiano.

Č il regno di Francesco il Fornaio: lui in quello spazio - maglietta bianca, mutande bianche, calzettoni bianchi, senza scarpe, bandana bianca legata da pirata intorno al capo, lui stesso bianco di farina da capo a piedi, baffi compresi - si muove con forza e destrezza fra nuvole di fumo e farina, novello dio Vulcano, ora introducendosi nella camera di cottura per pulirla, ora caricando legna, ora attizzando, infornando, sfornando; per quasi tutta la notte, per gran parte del giorno. Qualche donna, nell’attesa dell’infornata, batte un uovo in una tazza e, bagnandosi le dita, unge, quasi accarezzandoli, i dolci uno a uno. Dinanzi al forno sullo spiazzaletto, dalle nove, l’ora delle prime sfornate, in poi, staziona con continuitą un crocchietto di ragazzini, che tra un gioco e l’altro riescono a intenerire qualche cliente di «Frangģskė», catturando bocconcini di pizza e tarallucci ancora caldi.

Bastianino il Sarto lavora quasi sempre all’aperto, seduto davanti la porta di casa sua in Piazza Balilla, o anche sul balcone al piano di sopra: tra le mani sempre un capo di vestiario e ‘ago e filo’; su una sedia a lui vicino, immancabili, il cestino con quadernetti di appunti, metro, gessetti, e il cuscinetto con aghi, aghetti e spilli infilzati - la macchina da cucire Singer, attrezzo principale del mestiere, «Bastiančinė» la tiene dentro casa, ben protetta. «Bastiančinė» č il sarto di tanti del paese: molto spesso adatta capi, raramente crea capi nuovi. Bastianino - non č giovanissimo, ha grosso modo l’etą di Papą, - č di compagnia, ed č generoso: mentre lavora, č spesso circondato di ragazze, giovani e giovanissime, desiderose di imparare a usare ago e filo, e anche di apprendere quanto «Bastiančinė» sa - lui ha lavorato a suo tempo in un cotonificio del Salento - di lavorazione dei tessuti.

Molte donne del paese, da sole, in compagnia, nelle case, davanti le soglie delle case, non solo sferruzzano, rattoppano, attaccano bottoni, ricamano, lavorano di uncinetto, ma anche cardano, filano, alcune addirittura tessono, e sono in grado di realizzare lenzuola, asciugamani, stoffa per camicie o vestiti, bisacce. “Perché, Biancł, le donne sono state capaci di mettere insieme pił o meno bene tutte le fasi della catena di produzione della lana e del cotone. «Mattėjłccė’u Pėkurąrė» a marzo aprile raccoglie tutta la lana grezza prodotta dalla tosatura delle pecore qui intorno che gli arriva a dorso di mulo, ne fa una prima selezione, le dą una lavata con l’acqua del suo pozzo, la asciuga, come si fa, all’ombra, la sgrassa in non so quale fetenzia a base, credo, di orina di pecora, e la batte, e la rilava, preparandola per la cardatura. «Vungčnzė Berrčttė» tiene un campo di cotone tutto bianco nella piana di Calenella: a settembre-ottobre lo raccoglie e lo lava, preparandolo pure lui per la cardatura. E poi cominciano a lavorare le donne del paese: con pettini per la cardatura, fusi e rocche per la filatura; due hanno pure la spola per la tessitura.”

«Failłcc’u Skarpąrė» č il calzolaio del paese, l’unico. D’altra parte, buona parte del paese le scarpe non le usa proprio. Raffaeluccio č specializzato in grossi scarponi di cuoio, ma fa anche scarpe normali, il pił resistente possibile per uomini, pił leggere, con l’immancabile fibbia laterale, per donne. “Fa un paio di scarpe nuove ogni cento che ne ripara - mi ricorda Rosalba - e la gente poi spesso, se si rompono le suole mette solette di cartone, se si rompono le tomaie inserisce pezze di iuta o di cotone.” Anche «Karlłcc’u Sanapėjąttė» e «Karlčin’u Stańńąrė» sono artigiani unici nel loro mestiere: la bottega di Carluccio, che ripara zuppiere, piatti, scodelle in ceramica, si trova appena dentro la Porta del Ponte; la bottega di Carlino, che ripara di tutto, si trova nella Via Porta di Basso. Le botteghe sono anche le case, o parte delle case, degli artigiani. Alcuni artigiani lavorano soprattutto per i cavalli, gli asini e i muli. «Marėjłcc’u Fėrrarė», il fabbro del paese, nella sua bottega sulla strada del cimitero, tra fornaci, vaschette di raffreddamento, pinze, punteruoli, martelli, e scintille, fa pure qualche inferriata, ma soprattutto costruisce ferri di protezione per gli zoccoli degli animali.

«Gėggčin’u Uąrdąrė» ha la bottega ricavata nella stalla di Moro, con cui spartisce lo spazio: Giggino ripara e costruisce selle, «i vardė», per cavalli, asini e muli. La porta in legno grezzo, suddivisa trasversalmente, con un’apertura circolare nell’anta inferiore destra, consente a Moro, sporgendo il suo lungo collo oltre la soglia, di curiosare nella viuzza, a Vega e Mizar di uscire ed entrare a loro piacimento, a Giggino di conservare il legno ben stagionato e la paglia, materiale di cui ha bisogno per il suo lavoro, e di ricevere anche all’interno i suoi clienti a quattro zampe. Giggino lavora quasi sempre davanti la porta della bottega-stalla nella viuzza. A far compagnia a Giggino ci sta spesso «Mėkėlčin’a Makėnė»: Michelino č un pezzo d’uomo, alto pił di un metro e ottanta e pesante pił di un quintale, che veste sempre di scuro, portando una fascia rossa alla vita e una bandana rossa al collo.

«Mėkėlčinė tąinė u trajčinė» mi spiega Rosalba mentre osserviamo la scena dal balcone di casa. «I trajnąirė sonnė kuillė ke portėnė i peskėciąnė forė pająisė: ki trajčinė ląurė portėnė i krėstėjanė e i kundė a ońńė pizzė dė munnė, dė nottė e dė jurnė, kė kualłnġa tembė; kuąnnė kjąuė, ‘kėmņġġjėnė krėstėjanė, kundė e nėmalė kė mbrėllņunė ġrossė; stannė vėstņutė tuttė ‘a stessa manąirė, akkąumė va vėstņutė Mėkėlčinė. Tuttė u sapėnė ke a Pėskėcė, kuąnnė ą jģ ‘a kuąlėkė vannė, ą jģ nda Mėkėlčinė, e ‘u sapėnė tuttė andņ cė trąuė: “Mo jč, mo tenġė ke ffą” risponde sempre Michelino. “Ą tėnč pacičnzė! Ą vėdč mo ke m’akkąttė ‘a makėnė!” U kjamėnė akkušģ, Mėkėlčin’a Makėnė, propėjė pėkkč, da kuąnnė jąivė uańńąunė, tėnąivė u pundģllė, dėciąivė sčmbė na kausė, ke kuąnnė cė faciąvė ġrossė c’ava ‘kkattą na makėnė: mo penzė semb’a makėnė ke nan tąinė.»

* * * * *

La Marina č l’estensione del paese sul mare: č la zona costiera, addossata allo sperone del paese, dove la gente fa lavori di mare. Č situata nella parte iniziale della spiaggia, di grana finissima, color oro, che, lunga circa un chilometro, dalla base dello sperone arriva fino «o’ Jalģllė», la spiaggetta sotto le pendici di Monte Pucci. Una banchina d’attracco si protende dalla spiaggia verso il mare per un’ottantina di metri; alle spalle della banchina si erge un molo frangiflutti che si incista nello sperone. A qualche decina di metri dalla testa della banchina due isolotti rocciosi, scoscesi, scuri, uno alto una metrata sul livello del mare, l’altro alto fino a tre o quattro metri, ne continua il disegno, lasciando un canale, tra loro e la banchina, verso il mare aperto. “Quello č il Monaco, con la Monachella: sono il simbolo della Marina - mi spiega zio Raffaele. - Qui a Peschici pochi sanno nuotare; e quei pochi che sanno nuotare, quando vengono a fare il bagno, e il bagno lo fanno non lungo la spiaggia ma qui alla Marina in mezzo a barche e pescherecci talvolta insieme a cavalli e maiali, si divertono a nuotare avanti e indietro tra spiaggia e Monaco, e a tuffarsi e rituffarsi dalla banchina o dal Monaco. E sono anche, «u Monėkė e ‘a Munacčllė», una miniera di cozze. I ragazzi ne divorano a quantitą di «koccėlė».”

Alcuni pochi pescherecci, lunghi sette otto metri, sono attraccati al molo - “debbono essere di «Pavėlłccė»”, - altre barche pił piccole sono ancorate in rada, nella sorta di darsena creata dalla banchina e di due isolotti; altre barche sono tratte a secco e parcheggiate su palanchi di legno; alcune di queste giacciono in stato di evidente disarmo. Le barche sono in maggioranza piccole e misere: sui pescherecci, su alcune barche, su un tratto di spiaggia, caos di reti, nasse, palamiti, lenze, canne, cime, remi, lampare. “Vedi, Biancł, il molo e il Monaco proteggono la rada dai marosi di tramontana e di grecale. I venti prevalenti nell’Adriatico seguono l’andamento della costa, orientata da nord-ovest a sud-est: ma qui a Peschici, come negli altri posti, i venti si adattano al profilo del terreno: il vento da nord-ovest, il maestrale - che non č certo quello che si abbatte furioso sul Tirreno provenendo dalle valli del Rodano - arriva certo, ma un po’ addomesticato da Capo Jale e da Monte Pucci, che ne calmano gli ardori. Il vento da sud-est, lo scirocco, passa al largo, si avverte poco sotto costa. Sono i venti di grecale quelli pił furiosi. Non arrivano spesso, ma quando arrivano... D’inverno calano dai Balcani con folate maestose: si insinuano nei vicoli, vibrano tra i camini; il cielo diventa terso, limpido; il mare si gonfia: i flutti a volte scavalcano il molo, sommergono il Monaco; e il canale ribolle di marosi. Da grecale poi arrivano anche le brezze estive, quelle dolci del tramonto.”

A un centinaio di metri dalla banchina, al limite dell’arenile, segni di fumo si alzano filiformi verso il cielo. “Quelle sono le carbonaie di «Pavėlłccė»: lģ carbonizzano legna, legna resinosa, per tirarne fuori pece per calafatare le barche, e carbone per riscaldare la gente.” Tra la banchina e le carbonaie, sempre al limite dell’arenile, si succedono paralleli alla spiaggia alcuni manufatti in pietra, con volte a botte, con grossi portali in legno. “Quelli sono magazzini per attrezzature varie, per la pesca, per le carbonaie, per le barche stesse.” Davanti ai magazzini una serie di filari tra loro paralleli, perpendicolari alla battigia, costituiti da pertiche verticali, con la terminazione a ‘v’, e pertiche orizzontali appoggiate nelle ‘v’ delle verticali. “E quelli, vedi? sono «i spasąlė»: ci stendono le reti ad asciugare.” Ce ne sono di reti, infatti. La Marina sembra abbastanza frequentata: decine e decine di persone indaffarate sulle barche, intorno alle barche, intorno alle carbonaie, intorno ai magazzini; tutti con la pelle arsa, tutti con il baschetto, molti con la maglietta di lana grezza a colori misti, molti con straccali, disposti esterni alla maglietta, a sostenere le brache, tutti a piedi nudi; decine di curiosi e di nullafacenti. Un crocchio accanto a uno dei pescherecci attraccati e a un carretto, che si č fermato nei pressi, sulla banchina, sembra pił animato degli altri. “Deve essere appena attraccato: «u vi», stanno scaricando le cassette riempite di pescato; qualcuno ci č andato apposta, per comprarle; il resto viene caricato sul carretto e portato su in paese.”

“Vedi, Biancł, quelle barchette? Basta uno starnuto per capovolgerle: i pescatori debbono stare molto attenti. Perdere la vita, per quelli che restano č una tragedia. E anche perdere la barca č una tragedia: una barca nuova č un impegno economico spesso non sostenibile.”
“Ma, «zėją», non vedo nessuna indicazione, neanche una lampada, a indicare il molo e il Monaco.”
“Non la vedi, Biancł, perché non ci sta. In questo paese di mare, del mare c’č solo tanto timore; e nessuna cultura.”

* * * * *

Allo Spassiaturo ci sono andata spesso; mai da sola: di giorno con Rosalba e Teresa; se č buio, con la scorta di Papą e zio Raffaele. Lo Spassiaturo č un sentierino lungo qualche centinaio di metri, scolpito nella roccia, che si protende sullo sperone all’altezza del paese, in direzione opposta al Castello, parallelo alla rotabile per Vieste, fino ad arrestarsi in corrispondenza dell’antro di una grossa caverna: da un lato del sentierino la visuale č sgombra, in direzione della Valle degli Olivi e di Monte Pucci; dall’altro le pendici rocciose dello sperone offrono qualche sedile anch’esso scolpito. Č assolutamente spoglio: nessuna traccia di vegetazione, nessuna luce. Č il luogo naturale per una passeggiatina fuori paese; č il luogo ideale per scrutare le stelle. Sono rimasta spesso affascinata dalla nitidezza del cielo, nel biancore provocato dal pullulare delle stelle; e dalle conversazioni tra Papą Paolo e zio Raffaele, mentre, con lo sguardo verso il cielo, si indicano a vicenda le stelle: la stella polare, i carri, le altre costellazioni.

«U vģ, Failł: kučllė jč Vąiġė; e kučllė jč Mėzzarrė.»

Papą chiama i due cagnetti amici suoi con il nome di due stelle splendenti.

* * * * *

Anche al cimitero sono andata spesso, quasi sempre con Angela. Il cimitero del paese č di un’essenzialitą commovente. Č recintato, come necessario. Il cancello in ferro consente, anche se chiuso, di osservare attraverso le barre verticali l’interno. Appena varcato il cancello alcune poche cappelline private e alcune schiere di loculi, a quattro o cinque ripiani orizzontali; per tutto il resto solo semplici tumuli in terra con croci in legno. Dappertutto il nome, qua e lą qualche foto spesso sbiadita; alcuni pochi cipressi. Visitatori, sempre: la pił gran parte donne, completamente nerovestite, fazzolettone nero annodato sul capo, spesso occhi umidi, rosario tra le mani, mormorare sommesso.

«A Peskėcė u Kambėsąndė ońadņunė u kunzģdėrė ‘kkąumė sė fossė na kąusė sņujė, fa partė du pająisė, sta mmezz’i kasė» mi sussurra Angela. «Nu pėskėciąnė ješšė da’ kasė, cė fa na kamėnątė dė na vėndčinė dė mėnņutė e arrčivė o’ Kambėsandė: kė mo sta ‘kkuą, jąirė stąivė, anġąurė vėvendė, jind’a na kasė akkuą vucčinė; kė mo sta jind’a na kasė sapė kualė ą jessė u postė sņujė kuąnnė ‘u dducėnė akkuą, e sapė ke na’ rumąnč mąjė da sņulė. Cė stannė kuģllė ke venėnė akkuą pė farėcė na kamėnątė; cė fannė a mendė i krėstėjanė e i fattė dė na volėtė: passėnė e c’affčrmenė nnanz’a kuąlėkė postė, dicėnė u nąumė dė ki sta llą u salłtėnė, parlėnė addauąirė, akkarčzzėnė u dėtrattė, ‘u uąšėnė, dicėnė n’uraziąunė, o akkņndėnė cittė cittė kuillė k’anna fattė ‘nząimė.»

Papą Paolo ha voluto la cappellina di famiglia: č una delle poche del cimitero. Angela me l’ha mostrata. Č su due livelli: a livello terreno la cappella vera e propria, a livello inferiore - ci si scende attraverso una scala in ferro cui si accede attraverso una botola, anch’essa in ferro, che si apre sul pavimento del livello terreno - una ventina di loculi, a parete, tutti vuoti, fuorché due, quelli che ospitano Nonna Angelina e Donna Rosa.

«Papą dėicė ke i krėstėjanė so’ nu morsė dė terrė, e škittė pė nu morsė dė tembė cė ponnė mąuvė; ke po’, kuąnnė ke nan cė ponnė mąuvė kkjł, jind’a terrė cė n’anna jģ n’ata volėtė.» Angela mi ha istruito. «Nonnņ, Papą e Mammą Marėjuccė cė so’ ggią kapątė u postė andņ c’anna jģ a mettė: kuistė, kuistė e kuistė.»

(3.5 cont.)


NB1. Per seguire meglio la narrazione, elenchiamo di seguito i link delle puntate precedenti.

Cap.1
(1) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5363
(2) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5369
(3) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5410
(4) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5435

CAP. 2
(1) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5487
(2) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5523
(3) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5559
(4) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5628
(5) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5656

CAP. 3
(1) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5709
(2) http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5734


NB2. Si puņ facilitare la lettura dei periodi idiomatici tenendo a portata di mano la tabella dell’Alfabeto Peschiciano scaricabile da www.puntodistella.it/public/file/periodici/alfabeto_pds.doc


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