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01/06/2012

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MARIENZA

Clicca per Ingrandire Era Luglio. Nico, dopo tanti anni di assenza, si trovava in vacanza nel paese d'origine. Era pomeriggio tardi. Dopo una bella pennichella, era andato a sedersi su una panchina in quella ch'era la più grande piazza della cittadina, ora disegnata da aiuole dai contorni fantasiosi, con rose, fiori vari e alberi di agrumi e palme, un tempo popolata da una piccola pineta quasi secolare, che ospitava vecchi, bambini e cicale durante le giornate d'estate o passeri a frotte dalla sera all'alba di tutto l'arco dell'anno. Quante partite di pallone vi aveva disputato, Nico, insieme ai propri compagni di scuola - e di strada! Quante sbucciature alle ginocchia sul terreno reso duro dal tempo e dal calpestio della gente! Ora, l'unica ombra durante il giorno era quella delle poche palme. E sotto una di queste aveva appunto trovato riparo dal sole ancora caldo, anche se in fase di tramonto.

Pensava all'infanzia, all'agrumeto che non c'era più nei pressi, distrutto per dar posto a cemento e asfalto. Pensava al giorno in cui, per recuperare il pallone, aveva con un compagno di squadra scavalcato l'alto muro di cinta e raccolto l'unica grossa arancia pendente da un albero che, consumata con gli altri ragazzi, sarebbe costata molto cara a suo padre. Era stato chiamato persino dai Carabinieri! Una semplice ragazzata, fatta pagare come un doloso furto perpetrato da adulti.

All'improvviso, tra gli occhi suoi e il punto ideale verso l'ormai inesistente muro, un'immagine di donna: Marienza. Sorpreso, incredulo, gli parve di vedere un fantasma. Non la vedeva da quando si era allontanato dal paese! Ora avevano entrambi un mezzo secolo di vita, ma lei non aveva la minima ombra di ruga su quella pelle che conservava ancora l'antico colore olivastro, sotto capelli castani lisci corti, asimmetrici. E che occhi ancora vivi che parevano sprizzare scintille di ceppi infiammati! Pareva non fossero passati tanti anni.

Nico, completate le medie inferiori, si era trasferito altrove per proseguire gli studi; lei era rimasta lì. Ma quante cose erano cambiate, per lei, mentre lui restava lontano! Intorno ai quindici-sedici anni si era fidanzata, con un giovane molto conteso dalle ragazze, vincendo su tutte. Per amore o per caso, ne era rimasta incinta. E anziché pensare alla creaturina che portava in seno, alla quale sarebbe stato giusto e opportuno conservare un padre, ritenne più opportuno che l'uomo affrettasse la propria partenza per l'altro mondo quando ebbe scoperto che non ne voleva più sapere né di lei né del nascituro (che sarebbe poi stata una femminuccia). Così un giorno, fingendo indifferenza, andò a far visita alla futura suocera, che nulla sapeva dei disegni né della potenziale nuora né del figlio, e quando questi rincasò la giovane lo colpì ripetutamente con un coltello fino a che non le si accasciò davanti in una pozza di sangue. Si costituì. La bimba nacque in carcere e insieme, dopo avere scontato la pena (in tutto o in parte, Nico non sapeva questo particolare), raggiunsero una città del nord, dove furono ospitate da parenti di lei. Nico, di questo, aveva saputo quando tutto era successo ormai da anni. E non l'aveva vista più.

Nei pochi attimi prima che lei si avvicinasse alla panchina, non solo questi pensieri attraversarono la sua mente, ma anche altri, relativi a ricordi ancor più remoti. Erano stati compagni di gioco, nella strada dove abitava una sorella di lei, a poca distanza dai nonni paterni di lui. Giocavano insieme, maschietti e femminucce, indifferentemente, a giochi di entrambi i sessi. E come si divertivano attorno alle fanoje (falò), la sera di San Giuseppe e in altre ricorrenze che Nico non ricordava! Arrostivano patate e, d'inverno, salsicce, in cartocci di carta oleata che mettevano sotto la brace, lanciavano nel fuoco manciate di sale che liberava scintille come se fossero fuochi d'artificio, correvano per le stradine buie del quartiere, dove Nico la prendeva tra le braccia e la baciava (sulle guance: non esisteva ancora, a quell'età, il bacio sulla bocca, ovvero, non esisteva a quei tempi, per quei bambini; adesso, "TV docet!", i bambini sanno di tutto: di baci sulla bocca, di lingua dentro, lingua fuori e tante altre varie diavolerie!). Non solo giocavano ma, iniziate le scuole, cominciarono pure a scambiarsi bigliettini con frasi di parole sicuramente pregne di significati più grandi della loro innocenza.

Questi rapporti continuarono per diversi anni, fino a quando ne avevano circa dieci. Un giorno, però, s'interruppero. Era successo che le famiglie, che erano in amicizia, si ritrovarono proprio nella casa di campagna dei genitori di Marienza. E siccome i signori genitori spesso s'impicciano dei fatti dei figlioli, cominciarono a programmare le nozze dei futuri giovani: Nico e Marienza si sarebbero sposati, i genitori di lei le avrebbero dato una bella dote e in più la casa di campagna dove in quel momento si stava tutti assieme; Nico, invece, sarebbe diventato un dottore o quanto meno un impiegato e sarebbero stati tutti felici e contenti. Quanto disagio per i due ragazzi! Che porpora sulle loro guance! Che vergogna! Si sarebbero volentieri andati a nascondere, ma un figlio, allora, non poteva impunemente allontanarsi dalla tavola: raramente gli si concedeva di farlo e sempre e solamente per ragioni impellenti e giustificatissime. Rossi come gamberi fritti, per il resto della permanenza in campagna fecero in modo che i loro sguardi non s'incrociassero più. E, continuando su quella scia di comportamento, dall'indomani presero addirittura a schivarsi, a ignorarsi. Se fosse stato necessario, avrebbero anche litigato come acerrimi nemici, per non parlarsi poi più. Questo non era successo, ma sarebbero andati per strade diverse. Strade che, dopo quarant'anni, stavano di nuovo per diventare una sola o, per lo meno, stavano per incrociarsi, sia pure per qualche momento.

Marienza raggiunse la panchina. Nico fece un breve gesto del corpo, per far capire che le dava spazio. Lei abbozzò un sorriso, si sedette, ringraziò, emettendo poi un cordiale "buona sera". "Ciao", disse Nico. Lei guardò, lo affisò, rimase poi fissa con lo sguardo - senza parlare. Nico la credette in disagio, pensò che lei non lo ricordasse. "Sono Nicola, Nico - come mi chiamavi allora", si affrettò a dire e subito soggiunse: "Non ti ricordi di me? Eravamo compagni di giochi, nella strada di tua sorella. E ci scambiavamo bigliettini da innamorati quando andavamo a scuola. Ricordi? Ricordi che per colpa dei nostri genitori non ci siamo più parlati e poi non ci siamo più visti?" Marienza non rispose. Distrasse lo sguardo, lo portò lontano, all'infinito. E forse raggiunse il tempo in cui i ricordi di lei erano un tutt'uno con i ricordi di lui. Sembrò stesse passando un secolo. Nico aspettava una risposta, una reazione, un gesto. Gli occhi della donna s'inumidirono, sembrarono smarriti dietro un sogno, dietro quella lieve cortina di umore caldo che Nico riteneva di individuare.

"Sì, Nico, mi ricordo di te, mi ricordo di noi, non ho mai dimenticato quello che eravamo. Ricordo anche molto più di quanto tu possa immaginare. Ricordo che, per raggiungere la spiaggia di ponente, anziché andare diritto, facevi un giro vizioso per passare davanti a casa mia. Tu non lo sai, non te ne accorgevi, ma io, non vista, ti guardavo, ti vedevo. E come mi tremava il cuore, e come brillavano gli occhi miei per la gioia che mi faceva uscire dalla mia stessa pelle! Che momenti! Momenti non più vissuti dopo te, dopo quel tempo di strana, inconsapevole ma autentica felicità! Avere saggezza di grandi, allora! Ma come, se proprio i grandi ci avevano dimostrato di non possederne o di possederne ben poca? Una gran bella parte, poi, deve averla avuta il destino. Il destino, attraverso le bocche e i comportamenti dei nostri genitori, aveva già deciso per noi. Siamo stati i suoi giocattoli, si è divertito con noi e forse più con me che con te. Ho una figlia da marito, ormai (tra poco passerà, per andare insieme a far visita a certi amici), una figlia senza padre, mentre io vivo con un uomo che, per insperato, estremo colpo di fortuna, mi vuole un bene grandissimo che io forse non merito, poiché, oltre il rispetto e il mio corpo, non gli offro altro. Ma è magra consolazione, comunque. Non dico a ciò che meritavo, ma a ciò che avrei voluto, a ciò che sognavo, a ciò che tu stesso parevi promettermi. Tu stai bene. Così pare, per lo meno. Evidentemente, per te, le cose sono andate meglio che per me. Ma sono contenta, sono contenta, sai? Nella tua felicità posso intingermi anch'io, anch'io posso farne un po' tesoro, di riflesso. Non che mi senta in diritto di beneficiarne, ma sento, ho sempre sentito d'essere pur sempre l'altra metà di te, anche se metà mancata".

A questo punto si arrestò, gli occhi suoi neri sempre rivolti altrove, forse per non incontrare quelli di Nico, che riteneva colmi di felicità. Anche Nico si trovò senza parole, pur dopo aver avuto il coraggio di rievocare il loro passato. Era rimorso, era pietà verso quella che, nonostante la sua attuale maturità, pareva una creatura sperduta nell'intricata foresta della vita? Nico non sapeva rispondersi, anche se avrebbe pagato tutto l'oro del mondo per ritrovarsi tra gli scogli, dove si recava a piangere per la sua Marienza, quella Marienza che non aveva più avuto il coraggio di cercare, quella Marienza che, pur senza mettere in conto che presto sarebbe morta di cancro (Nico lo avrebbe saputo qualche anno dopo), aveva pagato così caro il biglietto per il suo breve viaggio sulla terra!

"Ecco, mia figlia sta passando - riprese la donna, apparentemente rasserenata. - Devo andare. Ciao. Ma forse è meglio dirsi addio: se passeranno altri quarant'anni prima di rivederci, può darsi che ci si riveda direttamente all'altro mondo". Gli tese la mano, strinse quella di lui, come se volesse, attraverso quella, travasare in lui la propria anima. Si alzò, senza fretta, quasi indugiando, in forse, poi si mosse, raggiunse la bellissima, statuaria figlia, proseguì con lei. Senza voltarsi. Nico non riprese la parola, pareva averla persa. Pareva che fosse andata via, per sempre. Con Marienza. Perfino la piazza, prima gremita, gli parve vuota.

Enzo Campobasso


 Redazione (foto Roby Ferrari)

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 10/06/2012 -- 09:45:27 -- vincenzo

Il "commento fotografico" (panchina di un parco in un triste autunno), traduce bene la tristezza che, alla fine, non può non indurre il racconto. Però, cozza contro l'ambientazione del racconto stesso: pomeriggio estivo, palme. Temo che l'immagine non abbia invogliato molti potenziali lettori a conoscere la storia contenuta nel racconto....

 
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