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01/05/2012

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JULIENNE: QUALE AMORE?

Clicca per Ingrandire C’erano solo loro, lungo la spiaggia. Loro ed il cielo stellato. Loro ed il loro silenzio, appena appena sottolineato dal lieve sciacquio della risacca sul bagnasciuga. La luna era già tramontata ed il buio era tale che si sarebbero tranquillamente confusi con la sabbia, per tenere e calde effusioni d’amore, come altre volte era avvenuto. Lei, la mattina, gli aveva chiesto d’incontrarsi alla solita ora, verso la mezzanotte. Lui, felicissimo, non aspettava altro, visto che si erano incontrati così di rado negli ultimi tempi. Camminavano ormai da diversi minuti, ma lei era scostante e non accennava a profferire parola. Lui, dopo il “ciao” ed il bacetto, si accorse della freddezza di lei e si dispose pazientemente ad aspettare che lei gli facesse la grazia di parlare e di metter fuori il rospo che le occludeva la gola.

Giunti ad un certo punto, lei si fermò, gli girò le spalle e, guardando verso il mare nero e muto, scoppiò in imprecazioni, non in italiano, ma nella sua lingua, in francese.

“Merde! - disse e reiterò la parola. - Merde et, encore une fois, merde! Mais maintenant, suffit! J’en ai assez, de toi, de ta conduite, de tes trahisons! Toi, tu n’es qu’un salaud et, peut être, un grand fils de putain, aussi! Me faire cocue! Moi! Toi! Et tu l’as fait, en outre, sous mes yeux. Moi, qui t’a été toujours fidèle, même si je ne t’avais jamais cherché après notre dernier rencontre à Milan. Comme ça, je n’en veux plus savoir de toi, je veux vivre en paix, maintenant, vivre ma liberté, ma jeunesse, mes rêves de jeune fille. Vivre ma vie, comme je veux, comme il faut!” (1)

Carlo - che non sapeva cosa fosse la lingua francese, pur dopo aver tanto frequentato Julienne - non aveva capito un’acca di quel che aveva vomitato la ragazza; sapeva solo, dalla concitazione, dalla perentorietà, dalla veemenza del tono della giovane che qualcosa, tra loro, si era appena definitivamente rotto. Non c’erano equivoci: Julienne ce l’aveva con lui. Ed era incavolata marcia. Solo, non ne capiva, non ne sapeva la ragione. Non sapeva perché Julienne mostrasse tanti diavoli quanti erano i crespi capelli neri della sua testolina aggraziata. Cosa aveva mai fatto, poverino lui, per meritarsi quella violenta furia d’improperi? Fino a quando gli aveva parlato nel suo ottimo, forbito italiano, Carlo aveva, ovviamente, sempre capito, senza preoccuparsi di dover indovinare cosa nascondessero parole di una lingua a lui del tutto estranea, ostica. Ed era perciò sempre stato in grado di rispondere. Ma ora, ora, cosa poteva mai dire per farla calmare, per farla recedere dalla sua furia che pareva distruttiva e che avrebbe di fatto distrutto qualunque cosa, se qualcosa, intorno a loro, fosse esistita? Tacque. Saggiamente.

Julienne, nel frattempo, non aveva fatto altro che continuare ad inveire, mentre tirava rabbiosi calci alla povera sabbia, a quella sabbia che, più di una volta, era stata muta testimone dei loro rapporti intimi ed aveva sopportato il peso dei loro corpi frementi e brucianti. Quando Carlo notò che Julienne aveva riacquistato un’andatura tranquilla ed ebbe l’impressione che la ragazza avesse dato completo o sufficiente sfogo alla propria ira, tentò di parlarle. “Julienne – le disse con voce implorante – ti prego! Tu sai che non capisco il francese, perciò non posso aver capito se non che sei arrabbiata con me. Non potresti, con calma, con il tuo chiaro, perfetto e dolce italiano, far capire anche a me le ragioni della tua rabbia? Come faccio a difendermi da tue eventuali accuse, se non so di che mi accusi?... Anyway, if you don’t want to speak me in italian, you can ever do it in english, don’t you?” (2). E la ragazza, effettivamente rabbonita, questa volta gli rispose. In italiano. Anzi, più che rispondergli, pose domanda contro domanda: “Chi è quella Tizia con cui te la fai quando io sono impegnata nel mio lavoro?”. Quando le giunse la risposta, ebbe l’impressione che fossero trascorse due ore, non due secondi. “Quale Tizia? Non c’è nessuna Tizia nella mia vita; c’è, che io sappia, solo una Julienne. Una Julienne che, invece d’invitarmi a fare l’amore, mi cammina muta lungo la spiaggia fino a quando non scoppia con la sua collera e con le sue incomprensibili parole, forse di stupide accuse! No, Julienne, no! Io non ho nulla da rimproverarmi, nulla per cui chiederti perdono. E già dalla nostra prima estate insieme ti avevo chiesto di sposarmi, rinnovandoti la domanda durante gli altri bei giorni felicemente trascorsi insieme a Milano. Non te ne ricordi? E Venezia, Milano, Rodi, non sono state e non sono occasioni, per me, solo di possederti sessualmente!”. Vedendola pensierosa, Carlo si fermò. E si fermò anche per darle più tempo per assimilare quel che le aveva detto di getto e che meritava, comunque, una risposta calma, pacata, serena.

Julienne, in realtà, era quasi assente con la mente: pensava di più a Venezia che non alle parole appena dette, con la violenza di un fiume in piena, da Carlo. Era stato bello, a Venezia. Anzi, quel periodo si poteva qualificare come favoloso, fa-vo-lo-so! Lei ventiquattrenne, bruna, carnosetta - al contrario di come si è sempre portati ad immaginare una giovane francese, specialmente se parigina -, soda, atletica, scattante, laureata in lingue straniere, a pieni voti, alla Sorbonne, con una perfetta conoscenza dell’italiano ed una buona conoscenza anche dell’inglese e del tedesco, libera, assetata di vita e di felicità; lui, poco più che trentenne, anch’egli laureatosi brillantemente, in ingegneria informatica, presso il Politecnico di Milano, ben inserito nel mondo del lavoro, ben remunerato, alla ricerca, allora, dell’anima gemella con cui formare famiglia. Non era un farfallone, infatti e, contrariamente a tanti giovani scavezzacollo, della famiglia aveva un vero grande culto.

Julienne, invece, non aveva molta voglia di accasarsi. Anzi, pareva che non ne avesse affatto. Dopo la laurea, disponendo di buone facoltà economiche (che, però, non le facevano disdegnare anche modeste, purchè oneste, possibilità di lavoro), aveva preso a viaggiare. D’inverno, tra l’Inghilterra, la Germania e la Svizzera, d’estate al sud. Due anni prima era stata a Malta ed in Grecia, l’anno precedente a Venezia, frequentando il Lido, di giorno, la parte lagunare, di notte. Qui, già provetta nel nuoto, aveva voluto frequentare un corso di soccorso in mare ed aveva conseguito il brevetto di “bagnina” (per dirla con una parola carina, anche se il termine appartiene ormai al passato, come tante altre mandate in soffitta, dopo averle sostituite con neologismi meno simpatici e dal sapore così formale da risultare ostici per la stessa psiche). Ed in maglietta da bagnina l’aveva conosciuta Carlo. Gli era parso così strano che una ragazza potesse e sapesse assolvere quel compito. La bellezza della giovane, innanzitutto, e la sua spasmodica irrefrenabile curiosità, lo avevano indotto ad avvicinarla in qualunque modo. Aveva perfino finto minore destrezza in mare di quanta in realtà non ne avesse, per indurla, se non a soccorrerlo, almeno a farla avvicinare per dargli qualche consiglio su come comportarsi con l’acqua. Anche Julienne aveva dimostrato, con i suoi caldi, genuini e teneri sorrisi, di non essere insensibile alle attrazioni del giovane ingegnere. Così che, quando questi le aveva chiesto di uscire insieme una sera, per un giro lungo le calli e per una cena in qualche ristorantino tipico della città lagunare, lei aveva accettato di buon grado. In capo a pochi incontri serali, lui preso sicuramente ed inesorabilmente da Cupìdo, lei più probabilmente solo dalle bollicine dello spumante (che lei aveva mostrato di ben gradire, senza gli sciovinismi di gente che puntualmente chiede champagne, convinta che questo vino sia insuperabile), si erano ritrovati nella camera di albergo di Carlo ed avevano piacevolmente consumato il saporoso frutto dell’amore. Alla prima, erano seguite altre serate, altre calde ed intense nottate. Poi, lei sarebbe rimasta fino alla chiusura dello stabilimento, Carlo, invece, era dovuto ritornare nell’operosa Milano per riprendere il proprio lavoro (che, per fortuna, si svolgeva in ambiente artificialmente, ma gradevolmente fresco). Durante il rimanente periodo estivo si erano tenuti in contatto telefonico, anche se Carlo avrebbe fatto i salti mortali per poterla raggiungere. L’infrangibile barriera era il suo intenso lavoro, fattosi ancora più gravoso a causa dei turni delle ferie.

Carlo, in verità, le aveva telefonato spesso, mentre lei si era fatta desiderare. Cionondimeno, durante il viaggio di ritorno in Francia, anziché prendere da Roma, dove si era recata, passando per Firenze, il treno per Genova-Ventimiglia, percorso che lei preferiva a quello interno, lo aveva preso per Milano. Carlo se ne era mostrato compiaciutissimo, anzi, felicissimo; lei, Julienne, non sapeva perché ci fosse andata. Le piaceva, sì, Carlo, come persona, come uomo, anche come maschio, ma non aveva alcun pensiero per un rapporto di tipo affettuoso e duraturo con lui. Così, per la seconda volta, alla richiesta del giovane, di sposarlo, aveva chiaramente risposto di no. Ed aveva continuato a rispondere negativamente anche per tutto l’arco dell’inverno, quando Carlo le telefonava. A primavera, l’insistenza di Carlo si era affievolita e, nei mesi di Giugno e Luglio, era cessata del tutto.

Ad Agosto, presi entrambi, ed in modo inconsapevole, dalla medesima curiosità, avevano finito per ritrovarsi sulla spiaggia di quel paesino del Gargano. Anzi, si può ben dire presso lo stesso albergo, lungo la riviera di levante. Lei vi era giunta intorno alla metà di Giugno, dopo aver contattato, via internet, la direzione dell’albergo ed essere stata assunta con il doppio incarico di bagnina e di animatrice, a turno con altri giovani di entrambi i sessi; lui, all’inizio di Agosto. Arrivato in auto, di sera tardi, stanco ed assonnato, Carlo se n’era andato direttamente a dormire, senza neppure cenare, dopo una doccia ristoratrice e conciliatrice di sonno. La mattina dopo, di buon’ora, si era alzato, aveva indossato il costume ed era sceso per familiarizzare con la nuova spiaggia e con il suo mare verdazzurro. Senz’alcun partito preso, si era avviato verso est, fino a raggiungere una zona di pietre e scoglietti tenuti freschi, anche quando il mare si scalda, da un rigagnolo d’acqua dolce proveniente da una sorgente interna (che Carlo aveva solo immaginato, riservandosi d’internarsi, se possibile, durante i giorni della propria permanenza, per andare a curiosare). Poi, un po’ per l’ostacolo degli scivolosi sassi, un po’ perché aveva percorso circa due chilometri di battigia a passo sostenuto, sentendosi stanco, era tornato indietro. E, fronte a ponente, aveva potuto scoprire l’altro lato della spiaggia, la scogliera, il paesino arroccato sulla collinetta alta poche diecine di metri. Era veramente tutto bello, proprio come gli era stato descritto. Non appena possibile, si sarebbe inerpicato per le immaginabili viuzze, avrebbe visitato la cittadina, si sarebbe recato nella scogliera, sarebbe andato oltre. Intanto, incantato a guardare ed a progettare, stava per superare il lido del suo albergo. Glielo aveva impedito solo la presenza di un’altana, contro la quale stava per sbattere il naso, se qualcuno non avesse richiamato la sua attenzione. E chi era quel “qualcuno”? Il “qualcuno”, in realtà, era una “qualcuna”: era Julienne.

“Attento, attento!” – aveva gridato e Carlo, arrestandosi, incredulo, si era girato a guardare verso l’alto, per verificare se la voce della sua “salvatrice” era proprio quella di chi gli era sembrato che fosse. Era proprio di lei, era di Julienne! Julienne che era in vena di scherzare, ovviamente, perché subito si affrettò ad aggiungere: “Ma, insomma, non ti posso lasciare solo un momento che subito ti perdi e finisci per farti male! Ma a chi pensavi! Io sono qui, non in cima al paesino o sulla scogliera!”. “Ju… Ju… Julienne? Ma sei proprio tu? Che ci fai lassopra! Mi stavi osservando, eh!” – disse Carlo, lasciandosi un po’ impaniare dalla sorpresa e dalla inaspettata gioia di ritrovare la donna dei suoi sogni. “Faccio quel che facevo a Venezia, né più né meno. Anzi, un po’ di più, sì, perché qui faccio anche l’animatrice, sia sulla spiaggia, ad insegnare balli latino-americani ed a far fare un pochino di aerobica, sia, di sera, nel cortile dell’albergo, a condurre giochi. Ma tu, che ci fai qui! E’ possibile che tu sia riuscito a tradire il tuo amato Lido?”. “E’ vero. Io, invece, non mi meraviglio di trovarti qui, visto che tu vai dappertutto; io ci sto per curiosità. Qualcuno (più di uno, in verità), mi ha parlato di questo Gargano, delle sue alte coste candide, calcaree, delle sue meravigliose grotte, del suo interno verde e talvolta grigio, a causa delle sue rocce carsiche, grigie e bucherellate dal tempo, dei suoi agrumeti, delle profumate zagare (di cui non ho potuto gioire, visto che ormai si son trasformate in succose arance), dei giganteschi alberi della Foresta Umbra, dei suoi armenti di buoi podolici, dei suoi uliveti e di tutti i buoni prodotti della sua terra: così ci sono venuto. Se il buongiorno si vede dal mattino, l’inizio di questo soggiorno è sicuramente favorevole: la prima impressione è positiva, piacevole” – disse, tutto d’un fiato Carlo e Julienne, subito commentò ed aggiunse: “Eh, ma tu sai già tutto del Gargano: non hai bisogno di visitarlo… Scherzo, naturalmente”. E Carlo, che non si era ritenuto interrotto, proseguì: “Insomma, del meraviglioso che avevo sentito dire di questi luoghi, ho voluto imitare San Tommaso: sono venuto a tastare di persona. E, per quel poco che ho appena visto, non mi sento affatto deluso. Se poi aggiungi che ho ritrovato te, che ormai davo per persa, puoi immaginare in quale cielo io mi possa trovare adesso!”. “Al settimo! Così mi pare che diciate voi” - concesse Julienne e Carlo subito la corresse: “No, non al settimo; un pochino più su: mi trovo almeno al decimo! Scendi? O devi rimanere appollaiata lassù come una pollastra e farmi venire il torcicollo per poterti ammirare?”. La ragazza, in effetti, non vedeva l’ora di scendere, di entrare nella braccia di Carlo, di risentire la sua tenera e forte stretta, il suo calore e non toccò un solo piolo per potergli cadere in braccio, con le labbra pronte a ricevere quelle di lui.

Era stata sciocca a non aver dato il benché minimo briciolo di speranza a quell’uomo cui, per la gioia, per la felicità, spesso le si erano inumiditi gli occhi. Ci aveva pensato e ripensato, ma la voglia di libertà era stata più forte di lei, del suo desiderio di cedere alle prospettive di un matrimonio d’amore e di felicità. Le sembrava cosa banale, estremamente borghese. Sicchè, aveva continuato a dirgli che le piaceva ma che di matrimonio non era assolutamente il caso che si parlasse.

Dopo le calde effusioni, Julienne, risalendo sull’altana, lo aveva invitato a salire, a farle compagnia. E, lassù, guardando la distesa del mare, puntellato di imbarcazioni alla pesca, avevano parlato a lungo, si erano detti tutto quello che, nel frattempo, era loro successo. A fine turno, messi più stabilmente i piedi sulla sabbia, avevano deciso di fare una bella nuotata insieme, come nel mare del Lido ed avevano riassaporato i dolci baci di sale di quei tempi andati. Usciti, si erano dati intesa di rivedersi spesso. Ma, in realtà, i progetti, a causa dei serrati impegni di lei, non erano del tutto realizzabili e, di fatto, Julienne, tempo da dedicargli non ne aveva avuto. I loro incontri erano stati sporadici: si erano visti più di sfuggita sulla spiaggia che non con tranquillità in camera di lui (lei, alloggiando con altre ragazze, in camere riservate ai dipendenti, non lo poteva ospitare), un lui che, bisogna dir le cose come stanno, preso dalla smania di conoscere il Gargano, era stato più latitante di un ricercato dalla legge. E, quando non era andato fuori per escursioni, si era intrattenuto con i componenti di un gruppetto misto di giovani concittadini, casualmente conosciuti durante il primo pranzo al ristorante dell’albergo. Solo od in compagnia, era stato a visitare la Foresta Umbra, era giunto fino alla sponda sud del Promontorio, a visitare la città di Manfredi, passando per quella dell’Arcangelo Michele; era stato a visitare i ruderi, che ancora incutono rispetto e commozione, dell’abbazia di Monte Sacro, nell’entroterra di Mattinata, l’abbazia benedettina di Pulsano, in terra di Monte Sant’Angelo, quella francescana di Stignano in agro di san Marco in Lamis, quella, benedettina anch’essa, di Kàlena (sia pure solo dall’esterno, in quanto un’annosa diatriba tra il comune di Peschici e quelli che si trovano, non si sa per quali arcane ragioni, ad esserne proprietari, non ancora consente né ai fedeli né agli appassionati d’arte, di entrarne in spirituale possesso) nella vallata interna alle pendici di Peschici, il Monte Saraceno con le sue tombe daune, ancora in agro di Mattinata, perfino necropoli (probabilmente paleocristiane, ignote a molti ed ormai depredate di tutto, perfino dei reperti ossei) sul Monte Civita (in zona Niuzi, Ischitella), Castelpagano, i cui ruderi sono stati, di recente, imprigionati in (orribili) colate di cemento che ne dovrebbero salvaguardare la preservazione per il futuro; il castello di Vieste e quello federiciano di Apricena, quello di Torremaggiore e quello di Lucera, riservandosi una puntatina a Barletta, a Castel del Monte ed altrove; aveva fatto un’escursione in barca, visitando la costa con l’Arco degli innamorati, la Grotta campana, la Grotta sfondata, quella detta Dei due occhi, per via della duplice apertura nella volta, quella Dei pomodori, Dei contrabbandieri, Delle finestre, la Smeralda, quella Della campana grande, con un’altezza intorno ai novanta metri, e giù giù fino a virare intorno ai grandi cerchi degli allevamenti ittici di orate, muggini e spigole del mare di Mattinata, oltre l’estrema Punta del Gargano. Insomma, aveva attuato il programma progettato in partenza da Milano, anche se ne avrebbe fatto volentieri a meno, dopo l’inatteso, casuale e del tutto insperato incontro con Julienne. Unica cosa che non aveva voluto fare era stata la visita alle Isole Tremiti: avrebbe desiderato andarci in compagnia della ragazza, in un più o meno lontano futuro, magari in luna di miele. A parte ciò, nessun corteggiamento, nessun appuntamento galante, nessuna particolare confidenza con chicchessia, specialmente con elementi dell’altro sesso.

Eppure, Julienne, che pareva del tutto refrattaria a qualunque sorta di gelosia, Julienne che aveva detto ridetto e ribadito che i suoi rapporti con Carlo non potevano andare al di là dei piacevolissimi incontri di carattere sessuale, quella stessa Julienne aveva cominciato a masticare male ed a deglutire ancora peggio i tossici bocconi della gelosia. Era innamorata? Si era innamorata anche lei? Inconsciamente era ora disposta ad accettare l’offerta di Carlo e divenire sua moglie? Non si era saputa rispondere, ma il tarlo la rodeva. Le rodeva il fegato, le rodeva il cuore, le rodeva l’anima. Fino a quando non ebbe deciso, quella sera, a fine giornata di lavoro, di affrontare la questione. Solo che, andando verso oriente, camminando fianco a fianco con Carlo, era rimasta muta, inducendo al silenzio anche il giovane. Poi, tutt’insieme, era esplosa, scagliando fuori, come lapilli infuocati, le sue illazioni, le sue accuse. Perché? Perché Julienne, che era apparentemente presa dai suoi impegni di lavoro, in realtà non si era fatta sfuggire di “controllare”, sia pure a distanza, il comportamento del suo amoureux. E vi aveva visto quel che non v’era. Carlo, è vero che, come detto, frequentava quel gruppetto di coetanei; è vero che si intratteneva particolarmente con una biondina del gruppo, poiché era l’unica, in realtà, senza compagnia, essendo tutti gli altri in coppie; ma è altrettanto vero che, poverino, non aveva tenuto con questa se non rapporti di pura conoscenza e di pura gentilezza, leciti, senza secondi fini e senza la mira di portarsela a letto. Aver ritrovato Julienne (anche se non riusciva a stare molto con lei) aveva significato rinfocolare il suo affetto, il suo amore per lei. Ed aveva riscoperto la sua determinazione di condurla all’altare. Ma lei, cieca di rabbia, gli aveva sputato addosso quelle accuse.

Passati tanti lunghi minuti a ricordare, a riflettere, la risposta di Julienne non fu comunque quella che si aspettava Carlo. Carlo pensava che gli avrebbe creduto; Julienne, invece, pacatamente, questa volta, gli confermò che – sebbene fosse disposta a credergli sulla liceità ed onestà dei rapporti con la “Tizia” del gruppo – non si sentiva matura abbastanza per il matrimonio, nonostante si fosse accorta che lei stessa sentiva ormai per lui il medesimo sentimento d’amore che lui sentiva per lei. Giunti, sulla strada del ritorno, allo stesso posto del re-incontro di qualche giorno prima, alla base dell’altana, Carlo si fermò, muto, di ghiaccio; Julienne proseguì verso l’albergo. L’indomani, per quanti sforzi fatti all’affannosa ricerca del volto di Carlo, non le riuscì di vederlo. Il giovane ingegnere, interrompendo le sue vacanze, ancor prima che sorgesse il luminoso astro del giorno, aveva pagato il conto ed era, a quell’ora, a diversi chilometri di distanza, sulla via di Bologna e di Milano, in compagnia della sua incredulità, del suo disappunto, della sua rabbia, delle sue lacrime, ma anche della convinta decisione che non l’avrebbe cercata più.

Enzo Campobasso


(1) “Maledizione!... Maledizione e ancora una volta, maledizione! Ma ora, basta! Ne ho assai, di te, del tuo comportamento, dei tuoi tradimenti! Tu, non sei altro che un porco e, forse, anche un gran figlio di puttana! Cornificarmi! Me! Tu! E lo hai fatto, per di più, sotto i miei occhi. Me, che ti sono stata sempre fedele, anche se non ti avevo mai cercato dopo il nostro ultimo incontro a Milano. Così, non ne voglio più sapere di te, voglio vivere in pace, ora, vivere la mia libertà, la mia giovinezza, i miei sogni di ragazza. Vivere la mia vita, come voglio, come è necessario!”

(2) “Ad ogni modo, se non vuoi parlarmi in italiano, puoi sempre farlo in inglese, no?”

 Redazione

 

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