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13/04/2012

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ARRIVEDERCI, “BOSS”

Clicca per Ingrandire Oggi è un giorno triste. Un giorno in cui diventa imprescindibile non rinnovare altri dolori, profondi come questo di oggi, venerdì tredici di un anno bisestile che ha già evacuato su di me, in soli tre mesi e mezzo, di tutto e di più! Oggi è il giorno del pianto, delle lacrime che non riesci a trattenere, annebbiano la vista e fanno tremare le mani sulla tastiera scambiandone i tasti e costringendoti a rileggere quanto digiti due, tre, quattro volte, quasi sotto il comando di un antico suggerimento-imposizione: “Ma il pezzo lo hai ‘passato’? E giù tutta una serie di neanche tanto affettuose contumelie sfrecciate dagli occhi, che parlavano più della bocca. Simile a quella che mi starai lanciando adesso che ti scrivo da una testata on-line in prima persona (“Non sei Enzo Biagi, cos’è questo ‘io’… ‘noi’!).

Mario, so che mi ‘odiavi’! Mi ‘odiavi’ perché rappresentavo quel mondo che non ti aveva compreso e tu non avevi mai accettato, prendendoti comunque la più bella delle rivincite: dimostrargli che non aveva ragione. “Ricordati sempre che sei un professore prestato al giornalismo, perciò… o fai come ti consiglio io o… quella è la porta”. Così “alla crudele”, come diciamo noi a Bari. E io mi adeguai, sapessi con quale sforzo, perché la forma mentis di oltre trent’anni di “onorato” servizio nelle patrie aule scolastiche - interrotto dal tuo pressante “ma che ci fai anccora nella scuola” - non si cancellano in un ‘fiat’, mentre fui costretto a vanificarla in brevissimo tempo se volevo raggiungere il mio scopo. Mi adeguai con amore ricambiando il tuo ‘odio’ che sapeva tanto di… amore e nelle orecchie i tuoi anatemi dopo aver letto le mie prime performance (si fa per dire): “Danaro!?... Denaro!... Sino?... Fino! … Questo titolo fa schifo! Non ti accorgi che ce l’hai nell’occhiello… Non hai ancora capito la differenza fra titolo e occhiello… Sei proprio un… professore!”

Io, che volevo imparare, avevo metabolizzato che le… ‘offese’ dovevano servirmi da insegnamento e le tue erano ‘lezioni’, un po’ burbere - specchio di un temperamento passionale, vulcanico - e drastiche (il tempo è il grande nemico del giornalismo), quindi non andavano discusse. Fui un allievo diligente? Non lo so. A distanza di tanti anni, accingendomi a titolare un articolo da postare su questo sito che ho creato ispirandomi a te, mi chiedo ancora: “Come lo avrebbe fatto il boss?” e mi affretto a variarlo. Mitica la sfida che lanciasti in una riunione di redazione a chi lamentava l’assenza di tempo per creare un titolo decente (… il tempo è il grande nemico del giornalismo): “Ve ne faccio cento in cinque minuti!” così significando che la classe non è acqua e un giornalista non s’inventa. Nessuno accettò la scommessa.

Ah, quelle riunioni di redazione: autentiche ‘lectio magistralis’ da aule universitarie. Propedeutico all’impostazione della prima pagina del numero successivo, l’esame del quotidiano del giorno, che sfogliavi sbandierando segnacci e appunti su ciascuna delle ‘cazzate’ che erano state fatte e per ciascuna non lesinavi frustate e ceffoni, gli stessi che appioppasti - e non metaforicamente - a un tuo antico redattore che non seppe riferirti cosa avesse visto esattamente passando accanto a un incidente stradale mentre raggiungeva la sede del giornale dove entrambi lavoravate (tu, caporedattore). Chissà se hai mai scoperto che qualcuno, durante la tua pausa pranzo, andava a scartabellare fra le tue carte per cercare di prepararsi la difesa guardando la copia che avresti portato in riunione!

Ne ricordo una in particolare, di quelle riunioni capaci di far ribollire il sangue nelle vene anche del più indifferente e agnostico fra i tuoi ‘allievi’. Sfogliando il quotidiano, elencando ed enumerando le diverse corbellerie commesse, voltasti l’ultima pagina con un gesto di disprezzo, ti alzasti e smoccolando sentenze sugli astanti ti rifiutasti di tenere la consueta ‘lectio’. Il tuo comportamento di quel pomeriggio fu (non ho dubbi) più pregnante, simbolico e produttivo di qualsiasi altro momento didattico. Fu come se ci avessi preso fisicamente a schiaffi uno per uno. Mi sale violento il bisogno di ripeterlo in quelle poche occasioni in cui sentiamo la necessità di confrontarci in questo mio attuale impegno.

Non fu necessario capire, motivare o giustificare, nella circostanza riferita. Bastava andare a rileggersi le pagine di “Giornalismo, amore mio”, primo libro della tua lunga serie di pubblicazioni. Quando lo feci la prima volta, ebbi netta chiara precisa la passione che ti animava - senza tenerla tutta per te, ma da buon samaritano deciso a trasmetterla a chi ritenevi avesse la stoffa - e ti aveva sempre animato, fin dal tempo del tuo primo adolescenziale articolo inviato quasi per gioco al più famoso giornale sportivo italiano. Il tuo biglietto da visita per entrare di diritto in un mondo che ti affascinava... mentre la scuola ti rifiutava! Pagine-testimonianza di come s’intende il mestiere (“il più figlio di puttana del mondo”), di quanto sacrificare della personale esistenza per onorarlo e rendergli omaggio (“Il giornalista non ha orari d’ufficio… si è giornalisti 24 ore al giorno”), di cosa aver paura e di chi non temere mai (“Senza padroni e senza padrini”).

Rammento anche le tue simpatiche perplessità grammaticali (“Chi non dubita non è uomo”) che mi partecipavi telefonando dalla tua stanza alla mia - distanti 20-25 metri? - e consentivano di prendermi una piccola ‘vendetta’ su di te e il tuo amorevole rifiuto di me. Oppure il tuo consueto prologo, saettante come lama di ghigliottina, a qualche intervento che reputavi fattibile solo se da me gestito (quanti… da stress) offrendomi l’orgogliosa possibilità di rendermi utile all’azienda. Un’azienda da te fortemente voluta quando una legge del 1977 stabilì che potevano fondare un giornale anche le cooperative di giornalisti. Letto, fatto. E fu così che ne divenni uno degli ultimi presidenti. Inutile, come tutti i presidenti d’altronde, perché sopra a tutto e su tutti l’unico nome, l’unica figura, la sola colonna portante che svettava eri tu.

Tu, con la tua smania di soddisfare l’intima esigenza in grado di ossequiare il “mestieraccio”, l’immanente urgenza di essere in edicola, l’immarcescibile volontà di annullare il gap di un prodotto lavorato a Bari e stampato a Roma. E ci riuscisti. E io non potrò mai dimenticare - improbabile cancellarlo dalla memoria dov’è stampato a fuoco - di aver vissuto con gioia ed entusiasmo estremi il passaggio da Via Melo di Bari all’area industriale di Modugno. Il Centro Stampa! Anno 1994: il sogno che diventa realtà. Una vera redazione, veri uffici dirigenziali e amministrativi, ma soprattutto autentica sede delle rotative, col loro profumo, la loro sinfonia, il loro afrore di macchine rombanti da Formula Uno e di proto attenti e vigili. Avevi sempre e da sempre posseduto un trono, adesso stringevi energicamente nella destra lo scettro.

Che anno, il 1994, e che anni a seguire. Indimenticabili. Un corpo redazionale che perdeva pezzi - i migliori - in quanto attratti da altre e (forse) migliori sistemazioni, sostituiti da giovani “allievi” da reiniziare a sgrezzare, formare, plasmare. Avanti c’è posto! Il marchio di sempre, da Attilio Romita, Donatella Scarnati, Beppe Capano della protostoria alle attuali colonne di Sky e altre piattaforme giornalistiche. Che tempi, che soddisfazioni, che lotte, che battaglie, che vittorie. Poi, inevitabili, le prime sconfitte. Un ciclo che si chiude, mai definitivamente però. E con esso, il tuo! Che destino, non per la sopravvenuta scomparsa, ma per le modalità in cui è avvenuta. Ce le racconta con distacco solo apparente la tua erede diretta in una lettera aperta che amiamo riportare in calce.

Ciao, boss (non amavi che ti si chiamasse “capo” e io lo inglesizzai), di un aspetto non avrai mai rimpianti: l’essere in ciascuno di noi che ti ha seguito, impregnandosi giorno dopo giorno dei tuoi insegnamenti - professionali ed esistenziali, - informandosi a dettami mirati suggeriti dalle tue poliedriche esperienze (quante!) e uniformandosi senza consapevolezza a regimi di quotidianità nuovi e in taluni casi lontani anni-luce dal proprio temperamento, perfino dal personale carattere. Ci sei e ci resterai finché anche noi ti raggiungeremo in quell’«altrove» in cui ciecamente credevi. E se quell’altrove esiste, sono certo che starai già pensando a selezionare le anime più predisposte per indirizzarle verso la creazione del primo, in assoluto, “Bollettino del Paradiso”.

Arrivederci, Gis!

Piero Giannini


LA LETTERA APERTA (scritta dalla figlia Rossana qualche giorno prima della scomparsa del Padre)

E’ come uno tsunami: travolge la vita, sconvolgendone ritmi e abitudini, modificandone le prospettive. E’ l’Alzheimer: che non deve necessariamente colpire te per stravolgerti. Anzi, quando ti tocca e se ti tocca, sei già fuorigioco: neppure sai di essertene ammalato, oppure ne hai una percezione minima,comunque ben al di fuori della realtà. Una malattia subdola, strisciante eppoi all’improvviso - almeno così credi- clamorosa: pronta a rubare ricordi, vita vissuta, eppoi in un declino inesorabile la dignità, almeno quella che tu intendi possa essere la dignità di un essere umano.

Allora, e solo quando comprendi appieno che quella persona, che tu hai amato profondamente, semplicemente non c’è più, puoi affrontare la malattia e ringhiarle contro “bastarda, tu non mi fai paura”. E impari da zero ad affrontarla mettendo al centro della battaglia quotidiana attenta a schivare i colpi per suo conto, quella nuova persona che, se possibile – e lo è - ami ancora di più di quella che ti ha lasciato per sempre e che vive nei tuoi di ricordi, ben saldi. I malati di Alzheimer non sono resi stupidi dalla malattia: sono solo diversi, perchè vivono in un viaggio continuo spazio-temporale: dipende dal tuo stato d’animo decidere se straziartene oppure lasciarti trasportare da loro in questo film senza trama. E raccogliere le perle di saggezza profonda, lampi di verità assoluta, che ti donano.

Certo: la scienza ti spiega cosa fare, come rallentare il declino. Ma la scienza del cuore, quella, la puoi mettere a punto solo se lo vuoi veramente. Ci sono momenti in cui le parole valgono nulla: una mano che ti stringe con la forza di un leone, mentre il resto del corpo è tremante e delicato come una fogliolina al vento, ti urla che ti vuol bene e che sente quanto gliene vuoi tu. Ti urla di non lasciarlo ora e lì, non più tardi o domani, perchè sei la luce nel buio, il porto nella tempesta: e con quelle due mani che si stringono si ha la forza di urlare “bastarda di una malattia, tu non ci fai paura, perchè io e lui siamo una squadra e tu sei da sola” .

E quando la morte arriverà per riportare nei miei ricordi quell’altra persona, questa nuova avrà vissuto con dignità il suo percorso: quanto amore, e quanti sorrisi, e quante carezze e quante, tantissime inutili parole non dette per dirci che ci volevamo bene.

Tutto il bene e tutto l’amore del mondo, papà.

Rossana Gismondi




OMAGGIO A MARIO GISMONDI (acrostico n. 24 tratto dall’inedito “Niño de Oro” di P.G.)


A C R O S T I C O M A N D O

Mentore di un mestiere “maledetto”
Alterna la politica allo sport
Rischiando sulla pelle le opinioni
Ininterrottamente pubblicate.
Ostello di pensiero positivo


Girato il mondo ha come un globetrotter
Idalgo di microfoni e computer.
Sostiene che per “esser” giornalista
Mente ci vuole e predisposizione
Ogni momento ed in ogni occasione.
Nocchiero di uno stuolo di rampanti
Deserta mai non va la sua lezione
Impronta nella Storia della Stampa.

 Redazione

 

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