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01/04/2012

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IL FIGLIO PRODIGO

Clicca per Ingrandire C’era una volta, tanto tempo fa, una famiglia composta da padre, madre e un figlio piccolino che era rimasto solo perché, dopo di lui, non ne erano venuti più. La mamma svolgeva il ruolo di donna di casa, il padre si premurava di portare avanti gli interessi della famiglia occupandosi delle proprietà che aveva, sia di proprio che da parte della moglie. Possedevano case, magazzini e, più di altro, oliveti e parecchie campagne di limoni e aranci. Il padre (tanto per dargli un nome lo chiameremo Giuseppe), pure se si faceva aiutare da altri a zappare, raccogliere, potare, era sempre il primo a rimboccarsi le maniche per dare l’esempio, qualunque cosa ci fosse da fare. A badare alla casa e al bambino pensava la moglie (che chiameremo Maria), una donna veramente attiva, risparmiatrice e di buona famiglia. A quei tempi, per esempio, anche se potevano benissimo acquistare il pane come compravano altri generi, lei preferiva alzarsi nella notte per impastarlo e mandarlo al forno.

Il bambino (gli diamo il nome di Giosino, piccolo Giosuè) cresceva. Cresceva - come si dice - nella bambagia, bello e rotondetto, tutto latte e miele. Le migliori leccornie, la miglior carne, i migliori pesci, le migliori scarpe, i migliori vestiti, proprio il meglio d’ogni cosa, insomma. E beneficiava anche di una bella ragazza (quella che oggi si dice, con parola straniera, baby sitter) che badava a lui quando la madre usciva per la spesa o per altre commissioni di casa. In due parole, insomma, era trattato come un principino, anzi, come un dio! E, dal momento che, sia la madre che la baby sitter erano abbastanza istruite, per Giosino pensarono che non c’era nemmeno la necessità di mandarlo all’asilo per farlo giocare con altri bimbi. E, quando fu il momento di mandarlo alle elementari, preferirono pagare un pedagogo che gl’insegnava quel che gli doveva insegnare direttamente a casa. Dalla scuola media fino alle superiori, poi, lo mandarono in collegio.

E, fino a quel momento, le cose parevano andare proprio bene. I guai cominciarono dopo! Volendolo far diventare avvocato, lo mandarono a Napoli, dove gli presero in affitto una cameretta presso una famiglia che avrebbe provveduto sia per il vitto sia per le pulizie, così che Giosino potesse pensare solamente agli studi. Ma il giovane, che non era abituato a stare con gli altri giovani, si trovò un poco a mal partito: prima si tenne lontano e poi, quando volle avvicinarsi, nessuno voleva fargli compagnia. Allora, cosa pensò Giosino, che era comunque intelligente? I soldi non gli mancavano e così cominciò a invitarli una volta a mangiare la pizza, una volta al cinema, una volta al teatro e, alla fine, si fece una bella cerchia di compagni che Giosino, ingenuo com’era, chiamava amici. Il piacere che gli dava la vita era dolce, tanto dolce che, invece d’impiegarci quattro anni per laurearsi, ci impiegò il doppio! Mai a pensare, Giuseppe e Maria, per quale ragione questo figlio, che non aveva mai perso un anno di studi, proprio alla fine ci aveva impiegato il doppio del tempo per diventare avvocato. Ingenui com’erano anch’essi, pensavano che la colpa fosse della città e della lontananza che non permetteva loro di fargli la stessa quantità di visite che gli facevano quando stava in collegio.

Sia come sia, Giosino tornò al paese con la laurea che volevano i genitori che, senza fare i conti con il pensiero del figlio, subito comprarono un appartamento e lo fecero trasformare in un bello studio legale. Ma, a Giosino, non andava proprio giù di darsi da fare: la vita, come aveva imparato a Napoli, era troppo bella per perderne un solo momento lavorando, sia pure come avvocato! Il dolce che gli poteva dare la libertà non c’era nulla che glielo potesse dare! E così, sapendo ormai come si procedeva per farsi gli amici, cominciò un’altra volta a pagare le spese a tutti per potersi sollazzare. E spendi oggi, spendi domani, le proprietà di Giuseppe e Maria, sempre pronti a pagare i debiti del figlio per non fargli fare brutta figura, un poco alla volta si assottigliavano sempre di più. Vendi questa campagna, vendi questa casa, tutta quella ricchezza stava facendo la fine della cappa di don Saverio (persona caritatevole che, per coprire gli altri dal freddo, finì per rimanere senza il suo mantello).

E quando il padre e la madre, prendendo coraggio, domandavano al giovane il perché di quella situazione, lui rispondeva sempre che non era per colpa sua se non lavorava: anche se si era laureato con un bel voto, anche se teneva un bello studio, nessuno gli faceva visita per affidargli una qualche causa! Che doveva fare, doveva suicidarsi? “Eh, sì, figlio mio, questo è proprio quello che devi fare quando proprietà non ce ne saranno più e io e tua madre, che già sta soffrendo di malattia di cuore, saremo morti! Per dirti la verità, io ti ho già preparato un cappio appeso alla trave centrale della casetta dell’ultima campagna rimastaci e che spero di non vendere fino alla morte! Quando sarà, quella è la via che devi prendere!” Quel che aveva detto Giuseppe al figlio non era una bugia, era proprio la sacrosanta verità. Una cosa sola non gli aveva detto e non poteva dirgli: che, quando fosse andato ad impiccarsi, avrebbe trovato una bella sorpresa!

Non passò tempo che quella povera Maria morì, come si pensava, proprio di crepacuore! E, dopo qualche mese, anche Giuseppe andò a prendersi la propria pace. Per Giosino, invece, pareva che non fosse cambiato niente. E, fin quando gli rimase una lira da spendere, non si trattenne nemmeno un poco dallo spenderla. E fece pure di più! E di peggio! Dopo aver venduto studio e casa, con l’accordo che avrebbe potuto abitarci ancora per un anno, vendette anche l’ultima campagna con la casetta, lasciandosi il diritto di consegnarne le chiavi dopo un certo tempo, e si dette ai bagordi peggio di sempre! In pochi mesi, il danaro stava per finire e così incominciò a ridurre gli inviti. Con la conseguenza che quelli che egli credeva amici un poco alla volta si allontanarono, lasciandolo sempre più solo! A quel punto cominciò a rammentare le parole che tante volte gli aveva ripetuto il padre: “Quando saranno finiti i soldi, saranno finite anche le feste e le amicizie. Ricordatene, figlio! L’amico vero non è quello che ti sfrutta come un limone e poi ti butta nella spazzatura; è, invece, quello che sa condividere con te il pane duro, che sa mangiare ammorbidito con la saliva, senza pensare ad altri companatici!”

“Uno solo ce n’era, di giusti, e io non l’ho saputo apprezzare. E così, adesso, non mi resta altro da fare se non quello che mi ha detto: andare a impiccarmi al cappio che lui personalmente mi ha preparato!” E, la sera stessa, dopo aver consegnato la chiave della casa, che, tanto, non gli serviva più, prese la strada della campagna convinto che quella era la sola che poteva prendere. Giunto alla casetta, apre, accende un fiammifero, vede dove si trova il cappio, sale sopra la sediolina che vi sta sotto, infila la testa nella corda, stringe un poco, spinge la seggiola e… cade per terra come una pera secca! Un momento dopo, vicino a lui, il rumore di una giara che si era rotta cadendo e un suono di marenghi d’oro che si sparpagliavano per tutto il pavimento!

Non credeva ai propri occhi che nel frattempo si erano abituati al buio, non sapeva che pensare, non sapeva che fare. L’unica cosa che gli riuscì fu di mettersi a piangere, cosa che era la prima volta che faceva in vita sua! E piangendo piangendo, si addormentò lì per terra e dormì fino a quando un gallo nella vicina campagna non lo svegliò la mattina dopo!

Il messaggio del padre, alla fine, fu recepito!

Si alza, si lava con l’acqua fredda del pozzo, raccoglie i marenghi, pulisce la stanza, chiude la casetta e torna in paese. La prima cosa che fa, va dal barbiere, si fa radere la barba, tagliare e lavare i capelli, poi va a comprarsi un bel vestito con una bella camicia e una cravatta, scarpe nuove e calze, torna alla casetta, si spoglia di quella roba che ormai è diventata a ‘ecce homo!’ e a mezzogiorno si presenta nel ristorante dove tante volte era stato con i compagni a far bagordi. Il proprietario, in verità, non vorrebbe farlo sedere, ma Giosino cosa fa, prende un marengo e lo getta sul bancone! A questa visione, il ristoratore chiama subito i camerieri e dice loro di servire all’avvocato tutto quello che vuole. Entro pochi giorni tutto il paese venne a sapere la novità e tutti i compagni di bagordi che si erano allontanati perché non c’era null’altro da mungere, volevano riavvicinarsi.

Ma Giosino era già cambiato, era un’altra persona. A ciascuno di loro ripetè le parole del padre, a proposito dell’amicizia, si fece accettare in uno studio legale e dopo poco tempo si fece un buon nome, tanto da divenire subito socio dello stesso studio, restituì il danaro della casetta, che non poteva perdere per nessuna ragione al mondo, acquistò un appartamento, si fidanzò con una brava figlia di famiglia, si sposò, anche se già di oltre quarant’anni, e cominciò pure a conoscere qualche vero amico, di quelli che si possono scrivere con la maiuscola!

Enzo Campobasso


(Il presente aneddoto, ispirato alla parabola del biblico Figliol prodigo, è stato da me rimaneggiato e ampliato rispetto alla breve e nuda versione riferitami nell’adolescenza da mio padre Domenico)


VERSIONE IN RODIANO

U SCIALAQQUÒN’ (Il figlio prodigo)

C’ stév’ na vòvt, tanta temp fa, na famìgghjə ch’mpost da nu pètr, na mamm e nnu fìgghjə p’cc’nìnn che jév’ rumàst sul’ p’cchè, dop’ d’ jiss, no nn jèv’n v’nút’ cchjù. ‘A mamm facèv’ a fèm’n’ d’ chès’, u pètr p’nzèv’ ä purtà nnanz i nterèss da famìgghjə ccupann’c’ dī propjètà che tt’név’, sìjə dàlla pàrta sόjə che dàlla part da m’gghjèr’. T’nèv’n’ chès’, majazzín’ e, cchjù d’ tutt, campagn d’ uulìv’ e pparìcchjə jardín’ d’ ch’mùn’ e portajàll. U pètr (tant p’ ddar’l’ nu nόm’, u chjamèm’ Gg’sèpp), púr’ se cc’ facèv’ jutà dē cr’stjèn’ ä zappà, ä rr’cògghjə, ä spruuà, jèv’ sèmp u prím’ ä ffrutt’càr’c’ i màn’ch p’ ddà l’esèmp’jə, qualùnqua cόs’ c’ stév’ da fa. Ä bbadà lla chès’ e ö cr’jatúr’, c’ p’nzèv’ ‘a m’gghjér’ (che chjamèm’ Marìjə), che jèv’ na fèm’n’ veramènt attív’, sparagnόs’ e d’ bbona famìgghjə. Ä quiddi temp, presèmpjə, púr’ se u pèn’ ciu putèv’n’ ccattà cóm’ ciaccattàv’n’ àvti còs’, jèss pr’f’rèv’ jav’zàr’c’ ‘a nòtt p’ tr’mpàr’l’ e p’ mmannàr’l’ ö fùrn.

U uagliόn’ (l’ dím’ u nόm’ d’ Ggiosín’) cr’scév’. Cr’scév’ – cóm’ c’ dic’ - nta vammèc’, bbèll e ttúnn, latt e mmél’. I mègghjə cannarutìz’jə, ‘a mègghja carn, i mègghjə pìsc’, i mègghjə scarp, i mègghjə v’stít’, u mègghjə mègghjə d’ogneccόs’, nzòmm. E tt’név’ púr’ na bbèlla uaggliόn’ (quèdd che jòjə c’ díc’, p’ nna parόla ggiargianés’, na bbébi sìtte) ch’u bbadèv’ quann ‘a mamm scèv’ p’ ffa ‘a spés’ o p’ àvti sruvìzjə da chès’). Nzòmm, nta ddójə parόl’, jèv’ trattèt’ cóm’ä nnu pr’nc’pín’, anz, cóm’ä nnu ddìjə! E ddö mumènt che sìjə ‘a mamm che ‘a bbébi sìtte jèv’n tutteddόjə bbastànz struuít’, p’ Ggiosín’ ănna p’nzèt’ che no nc’ stév’ manch’ n’nc’ss’tà d’ mmannàr’l’ alla scόl’ du magnà, p’ ffar’lu jucà p’ jjàvti crijatúr’. E, quann jè stèt’ u mumènt d’ mmannar’l’ alla scόla lementèr’, anna pr’f’rút’ pajà nu majèstr che l’ mparèv’ quidd che l’avèva mparà d’rettamènt alla chès’. Dalla scόla mèdjə fín’ ë scόl’ superjόr’, pu, l’anna mmannèt’ ö collègg’.

E ffín’ ä cuddu mumènt, i cόs’ parév’ che jèv’n’ pròpjə bbón’. I uèjə sònn ccum’nzèt’ dόp’! Vulènn’lu fa d’v’ntà vvuchèt’, l’anna mannèt’ ä Nnap’l’, ddov’ l’ănna ff’ttèt’ na stanzètt da na famìgghjə che pruvv’dèv’ sìjə pu magnà che pā pul’zzìjə, ccuscì che Ggiosín’ putèv’ p’nzà sulamènt ö stud’jə. Ma u ggiòv’n’, che no ngnèv’ bb’tuèt’ ä sta mmèzz ä ddavti ggiùv’n’, c’ jè truuèt’ nu pόch’ ä mmel’partít’: prím’ c’ jè t’nùt’ luntèn’ e ppu, quann c’ jè vv’lùt’ uùc’nà, n’sciún’ u vulév’ fa cumpagnìjə. Allόr’ ch’à p’nzèt’ Ggiosín’, che jèv’ comúnch’ ntelliggènt? I sòl’t’ no ll’ mancav’n’ e ccuscì l’à ccum’nzèt’ ä mm’tà na vòv’t’ ä magnà na pìzz, na vòv’t’ ö c’n’matògr’f’, na vòv’t’ tr’jèt’ e, alla fin’, c’ jè fatt nu bbèll cèrchjə d’ cumpàgn, che Ggiosín’, ngènuuə cóm’ jèv’, chjamèv’ amíc’. U piacér’ che l’ dèv’ ‘a vít’ jèv’ dòvc’, tanta dòvc’ che, mmèc’ d’ mpiejàr’c’ quatt’ann ä p’gghjàr’c’ ‘a làur’, cià mpijèt’ u dòpp’jə! Mèjə ä pp’nzà, Gg’sèpp e Marìjə, p’ quàlla raggiόn’ stu fìgghjə, che no nnavéva pèrs mèjə n’ann d’ stùd’jə, allùt’m’ allùt’m’ ciavèva mpiejèt’ u doppjə dū tèmp p’ dd’v’ntà vvuchèt’. Ngènuə cóm’ púr’ lόr’ jèv’n’, p’nzàv’n’ che ‘a còl’p’ jév’ sulamènt dā c’tà e ddā luntanànz che no lli p’rm’ttèv’ d’ far’l’ ‘a stèssa quant’tà d’ vìs’t’ che l’ facèv’n’ quann stèv’ ncollègg’.

Sìjə cóm’ sìjə, Ggiosín’ tòrn ö pajés’ pā làur’ che vvulèv’n’ i ggenitόr’, che, sènza fa i cunt pū p’nzér’ dū figghjə, sùbb’t’ ănna ccattèt’ na chès’ e l’ănna fatt strafurmà nta nu bbèll stùdjə d’ vvuchèt’. Ma, ä Ggiosín’, no ll nguzzèv’ pròpjə d’ fa nènt: ‘a vít’, cóm’ avéva mparèt’ ä Nnap’l’, jèv’ tròppa bbèll p’ ppèrd’c’ nu sól’ mumènt d’ jèss ä ffat’jà, sìjə púr’ cóm’ vvuchèt’! U dòv’c’ che l’ putèv’ dà ‘a libbertà no nc’ stèv’ nènt che ciū putèv’ dà! E ccuscì, sapènn oramèjə’ accóm’ c’ facév’ p’ ffar’c’ l’amíc’, à ccum’nzèt’ n’àvta vòvt ä ppajà i spés’ d’ tùtt p’ pputèr’c’ sullazzà. E spìnn jòjə, spìnn crèjə, i propjetà d’ Gg’sèpp e Mmarìjə, sèmp prònt ä ppajà i dèbb’t’ dū fìgghjə p’ no nfar’lu fa brutta f’júr’, nu póch’ alla vòvt c’ ssutt’gghjàv’n’ sèmp d’ cchjù. Vìnn stu jardín’, vìnn sta chès’, tutt dda r’cchèzz stév’ facènn ‘a fín’ dā capp d’ dò nZavèr’jə.

E qquann u pètr e ‘a mamm, facènn’c’ curàgg’, ddummannàv’n ö ggiòv’n’ u p’cchè d’ quèdda s’tuazjόn’, jìss r’spunnév’ sèmp che no ngnèv’ còl’pa sόjə se no nfat’jèv’: púr’ se cc’ jèv’ laurejèt’ p’ nnu bbèll vόt’, púr’ s’ tt’nèv’ nu bbèll stùd’jə, n’ssciún’ u jév’ ä ttruuà p’ ff’dàr’l’ quàl’che ccàus’! Ch’avéva fa, ciavèva ccíd’? “E sscì, fìgghjə mìjə, cùst jè ppròpjə cùdd ch’â fa, quann propjetà n’c’ n’ stann cchjù e jji e mmam’t’, che ggià sta suffrènn d’ malatìjə d’ cόr’, sím’ mùrt! Ji, p’ ddìr’t’ ‘a v’r’tà, tê pr’parèt’ ggià nu chjàpp appís’ alla catén’ da casèdd dū lut’m’ jardín’ che c’ jè rrumàst e cche spér’ d’ no vvènn fin’ alla mòrt! Quann sarrà, quèdd jè ‘a vìjə ch’â p’gghjà!”. Cùdd ch’avèva dìttt Gg’sèpp ö fìgghjə no ngnév’ na bbuscìjə, jév’ pròpjə ‘a sacrosànta v’r’tà! Na cόsa sól’ no ll’avèva ditt e ncia putév’ díc’: che, quann jèv’ è m’p’ccàr’c’, avéva truuà na bbèlla sorprés’!

No mpass temp che quèdda pòv’ra Marìjə mόr’, cóm’ c’ p’nzèv’, pròpjə d’ crépacόr’! E, ddόp’ ä qquàl’che mmés’, púr’ Gg’sèpp c’ va rr’c’ttà. P’ Ggiosín’, mméc’, parév’ che no ngnév’ cagnèt’ pròpjə nènt! E, fín’ ä qquann l’ jè rrùmast na íir’ da spènn, no nc’ jè tratt’nút’ manch’ nu pόch’ da spènn’l’! E à fatt púr’ d’ cchjù! E dd’ pèjə! Dόp’ ch’avéva v’nnút’ u stùd’jə e ‘a chès’, pū patt che c’ putév’ jabb’tà ancόr’ p’ nn’ann, à v’nnút’ púr’ u lùt’m’ jardín’ pā casèdd, lassànn’c’ u d’rìtt d’ cunz’gnà i chjèv’ dā casèdd dóp’ nu cèrt tèmp, e c’ jjè ddèt’ ë bbajòrd pèjə d’ sèmp! Nta ppóch mís’, i sòl’t’ c’ stèv’n’ funènn e ccuscì à ccum’nzèt’ ä raddúc’ i mmít’. Pā conzeguènz che tùtt quidd che jiss cr’dév’ amíc’, nu pόch’ p’ vvòvt, c’ sònn lluntanèt’, lassànn’l’ sèmp cchjù súl’! Ä cùddu pùnt à ccum’nzèt’ ä rr’curdàr’c’ i parόl’ che tanta vòvt l’avéva dìtt u pètr: “quann sarrànn f’nút’ i sòl’t’, sarrànn f’nút’ púr’ i fèst e i m’cìz’jə. R’cúrd’t’, fìgghjə mìjə! U vér’ amích’ no ngnè cùdd che t’ sfùtt cóm’ ä nnu ch’mún’ e ppù t’ jètt nta mmunnèzz; jè, mméc’, cùdd che c’ sèp’ spart p’ tte u pèn’ tòst, che ciu sèp’ magnà spunzèt’ pū sputèt’, sènza p’nzà ä jjàvti cumpanàt’ch’!”.

“Jún’ súl’ c’ n’ stév’ d’ jùst e jji no lle sapút’ ppr’zzà. E ccuscì mo no mm rumèn’ da fa javt’ che quìdd che m’à dditt: jìr’m’ ä mp’ccà ö chjapp che jìss stèss m’à ppr’parèt’!” E ‘a séra stèss, dòpp cunz’gnèt’ ‘a chjèv’ dā chès’ che, tant, no ll s’rvév’ cchjù, à p’gghjèt’ ‘a strèt’ du jardín’ cummìnt che qèedd jèv’ ‘a sól’ che pputév’ p’gghjà. Rruuèt’ alla casèdd, grèp’, ppìcc’ nu zufarèdd, véd’ addόv’ c’ trόv’ u chjàpp, nchjèn’ sόp’ ‘a s’gg’tèdd che stév’ sòtt, nfíl’ ‘a chèp’ nta còrd, strègn nu pόch’, vòtt ‘a s’ggiόl’ e… cchèd’ p’ ntèrr cóm’ ä nna pérasècch’! Nu mumènt dόp’, uucín’ ä gghjss, u r’mόr’ d’ na ggiàrl che c’ jèv’ ròtt cadènn e nnu sόn’ d’ marèngh’ d’όr’ che c’ spatr’jàv’n’ p’ ttùtt u làstr’ch’!

No ncr’dév’ ä ddùcchjə pròpjə che, tramènt, c’ jèv’n’ bb’tuèt’ ö scùrd, no nzapév’ che pp’nzà, no nzapév’ che ffa. L’un’ca cόs’ che l’ jè r’jəsciút’, jè stèt’ d’ mètt’c’ ä cchjagn, cόs’ che jèv’ ‘a prima vòvt che facév’ nta vita sόjə! E cchjagnènn chjagnènn, c’ jè dd’rmút’ p’ ntèrra stèss fín’ ä quann nu uadd nta nu jardín’ uucín’ no ll’à rusp’gghjèt’ ‘a matína dόp’!

U messàgg du pètr jèv’ stèt’ capìt’, alla fín’!

C’ jàvz, c’ lèv’ p’ ddàcqua frèdd dū pùzz, rr’cògghjə i marèngh’, pulìzz ‘a stanz, chiúd’ ‘a casèdd e ttòrn ö pajés’. ‘A prima cόs’ che ffa, và dö var’vér’, c’ fa tagghjà var’v’ e ccapìdd, pù c’ và ccattà nu bbèll v’stít’ p’ nna bbèlla camís’ e nna gravatt, scarp nόv’ e cav’zètt, tòrn alla casèdd, c’ spògghjə d’ quèdda rròbb che ormèjə c’ jév’ fatt ä cciajόm’ e ä mezz’júrn ciappr’sènt ö ristorànt addόv’ tànta vòvt jév’ stèt’ pī cumpàgn ä ffa bajòrd. U patrún’, pā v’r’tà, no nnu vulév’ fa ss’ttà, ma Ggiosín’, che ffa?, pìgghjə na marèngh’ e ‘a jètt sόp’ ö bbancόn’! Ä vv’dè ccuscì, u patrún’ sùbb’t’ chjèm’ i cammeriér’ e l’ díc’ d’ s’rví all’avvuchèt’ tutt quìdd che vvo. Nta ppόch’ júrn, tutt u pajés’ sapév’ ‘a nuv’tà e tùtt i cumpàgn d’ bajòrd che c’ jèv’n’ lluntanèt’ p’cchè nc’ stév’ nènt cchjù da mògn, c’ vulèv’n’ vvuc’nà n’àvta vòvt.

Ma Ggiosín’ jèv’ ggià cagnèt’, jév’ n’av’tu cr’st’jèn’. Ä ogneún’ d’ lόr’ à rr’p’tút’ i parόl’ dū pétr, appropòs’t’ d’ ll’am’ìzjə, c’ jè ffatt p’gghjà nta nu stùdjə d’ vvuchèt’ e dόp’ pόch’ tèmp c’ jè fatt nu bbόn’ nόm’, tant da d’v’ntà sùbb’t’ sòc’ du stèss stùdjə, à ddèt’ ndrét’ i sòl’t’ dā casèdd, che no mputév’ pèrd p’ nn’ssciúna raggiόn’ ö mùnn, cià ccattèt’ na chès’, cià ttruuèt’ na bbona fìgghjə d’ mamm, c’ jè spusèt’, púr’ se jjév’ ggià di cchjù d’ quarant’ànn, e à ccum’nzèt’ púr’ ä ccanòsc’ quàl’che vvér’ amích’, d’ quìdd che c’ pònn scrív’ pā ja majùsch’l’!
Enzo Campobasso

 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 06/04/2012 -- 23:22:18 -- Paolo

pennellata delicata, Enzo. L'ho letta volentieri.

 
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