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20/02/2012

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“VENTI DI GRECALE”: GLI AMARCORD - 1° Cap. (2)

Clicca per Ingrandire L’ho incontrato la prima volta a Roma sulla scalinata di una chiesa: Sant’Ippolito, una Parrocchia in Viale delle Provincie. Era la mattina di una domenica di settembre. Anche quella splendida. Del ‘37. Tre anni fa. Ero andata a Messa con Luisa. Lei, la maggiore tra i miei fratelli, viveva a Roma ormai da più di sette anni: aveva sposato Giovannino, aveva avuto Gianfranco e Giulio, era tranquilla; di quella tranquillità propria di chi è cosciente che sarebbe stato difficile avere dalla vita più di quello che la vita le stava dando. Io un po’ avvilita per la monotonia della vita di Alberona, un po’ depressa per l’atmosfera che si respirava in famiglia – i tre fratelli, la cui vivacità, la cui irrequietezza, le cui storie avevano rallegrato le mie giornate paesane, stavano ormai cercando il loro posto nell’arena della vita ben lontano da Alberona – ero venuta a stare con lei da un paio di mesi.

All’uscita della chiesa alla fine della messa ci vengono incontro Giovannino e Gino lungo la scalinata. Giovannino, statura media, non molti capelli, come al solito sorridente, come al solito gioviale, nella sua divisa usuale: completo grigio scuro, camicia e cravatta nere. Lavora alla Segreteria del Ministero dell’Interno. Gino, che procede al suo fianco, mi sembra subito bellissimo. Alto, capelli scuri ondulati, occhi scuri, grandi, ben tagliati, baffetti corti, pettinati, completo grigio chiaro, doppio petto, camicia bianca, cravatta grigio-scura; venendoci incontro, sale le scale con sicurezza, il busto eretto, sorridendo con una qualche timidezza: un bel portamento.

Mi colpisce subito la sua figura: io, che pure ho tutti fratelli grandi e grossi, sono l’unica ‘tappetta’ di famiglia, ed ho sempre guardato con interesse gli uomini di una certa statura, con un bel portamento. «Sono terrorizzata dall’idea di incontrare un tappetto come me» mi confido spesso con Luisa, «un tappetto che mi regali figlioli tappetti come me.» Giovannino bacia Luisa su una guancia e, guardandomi, mi stringe un braccio dolcemente con la mano. «Questo è Gino » sorride « è quasi compaesano mio, è di Peschici.» Poi volgendosi a Gino: «Ecco Luisa: di lei ti ho già parlato tanto. E Bianca: è sua sorella.»

Gino, riproponendo il suo sorriso timido, dice «Onorato» prende la mano di Luisa e, chinandosi con stile, fa il verso di baciarla, si erige nuovamente, si volta verso di me, mi guarda, serenamente, negli occhi, prende la mano che gli offro con leggerezza infinita, si china, ancora, a sfiorarla con le labbra. Ho avvertito – e avverto ancora oggi, ogni volta che quell’istante mi torna in mente – il tocco impercettibile delle sue labbra, la lieve carezza dei suoi baffetti sul dorso della mia mano. «Piacere» ho detto, come mi hanno insegnato a dire.

Di quel giorno, di quei momenti ricordo tutto nitidamente. O almeno così mi sembra. La giornata luminosa, le foglie allegre dei tigli lungo il viale, Luisa e Giovannino sorridenti, Gino che sorride, mi sorride, avanza verso di me, la carezza dei suoi baffetti sul dorso della mano... Ero piacevolmente eccitata: era come se avvertissi che qualcosa stava avvenendo, che mi proiettava ineluttabilmente nel ciclo turbinoso della vita. Quello che è accaduto dopo in questi tre anni si è avvicendato con ritmo frenetico, arrembante, incontrollabile, incontrollato. Alcuni eventi hanno seguito lo schema cui la mia fanciullezza sognante e pigra mi aveva pacatamente predisposto. Altri eventi assurdi, devastanti si sono sovrapposti, generati da schemi umanamente non pensabili.

Gino confessa a Giovannino che io gli piaccio tanto. Gli chiede poi di suggerire a Luisa, sempre che lei lo ritenesse opportuno, di sondare il terreno. Giovannino suggerisce. Luisa sonda. E comprende. Gino è invitato due domeniche dopo ad ascoltare la Messa con Luisa, Giovannino e me. Viene. Ci sediamo poi al Bar Santarelli a Piazza Bologna, a prendere una fetta di torta e un aperitivo. E a chiacchierare.

Gino è nato a Peschici, un paesino sul capo estremo di nord-est del Gargano, si chiama Luigi, è Gino – Luigino – per gli amici, Giggino per i peschiciani e per gli amici intimi. La madre è morta molto giovane, nel ‘18, di influenza ‘spagnola’; proprio come mamma mia: la spagnola non ha risparmiato le donne incinte, e sua madre Donna Rosa, proprio come mamma mia, era incinta. Lui allora aveva sette anni. Suo padre Don Paolo, e molta parte della famiglia vivono tuttora a Peschici. Don Paolo commercia in generi alimentari, che importa via mare da Manfredonia, e presiede il Consorzio Agrario locale. La sua condizione economica può definirsi ragionevolmente agiata. Don Paolo, che aveva già avuto da Donna Rosa cinque figli, s’è immediatamente risposato con una cugina, Donna Mariuccia, estirpata da un convento qualche giorno prima dei voti, con la quale riprende con successo l’attività di riproduzione: Donna Mariuccia gli dà altri quattro figli - la prima figlia è stata chiamata Rosalba, in memoria di Donna Rosa.

Sicché l’attenzione di Donna Mariuccia, donna indubbiamente intelligente e timorata di Dio, rivolta essenzialmente a Don Paolo, sul che non può darsi adito a discussione, e ai fratellini più piccoli, non può riservare più di tanto ai fratellini meno piccoli. I quali sono incoraggiati a cambiare aria. Giggino a otto anni va in collegio; e vi rimane praticamente fino all’inizio della vita lavorativa. Dapprima a San Severo e a Foggia per l’educazione scolastica; poi a Fano all’Accademia Militare. Torna a Peschici durante le vacanze. Trova spesso la famiglia aumentata: «Jè nnatë u bambèinë, a’ kasë Gëggèinë» canzonettano gli amici, quando lo rivedono. I legami con il paese si allentano, senza peraltro venir meno. Resta forte il legame con il padre. Dopo la laurea in giurisprudenza, opta, dati il clima che si respira in Italia e il suo carattere assolutamente mite, per la vita civile, abbandonando la carriera militare, cui pure l’Accademia lo ha predisposto. Inizia a far pratica da avvocato a Foggia; poi inopinatamente ha l’opportunità di entrare al Banco di Roma a Roma. La maggiore sicurezza del posto di lavoro e il fascino della capitale lo hanno convinto.

È a Roma da pochi mesi. I pochi amici che ha sono quasi tutti pugliesi: loro, i pugliesi, si cercano a Roma, e si trovano. Ha conosciuto Giovannino non da molto. Giovannino è di Rodi Garganico, un paesone a 20 chilometri da Peschici; sicché hanno trovato ben presto conoscenze e cose comuni di cui parlare, ed hanno simpatizzato. Tutto questo non me lo dice certo al Bar Santarelli. Qualche giorno dopo c’è stato un film. E poi sono arrivate rose rosa, con un biglietto “Bianca cara, ti penso. Giggino”. E poi sono arrivate rose rosse con un biglietto “Tanto!” E poi l’invito a pranzo a casa di Luisa. E altre rose rosse. E la prima uscita da soli, autorizzata da Luisa, la sorella maggiore. E le prime aperture dell’animo. E del cuore. E i turbamenti. E le prime confessioni: “Con te mi sento come a casa” mi sussurra “pensi, parli come le mie sorelle, come me. Mi sembra di conoscerti da sempre!” E le prime carezze. E le dolcezze. E i programmi. E i programmi comuni.

Ci sposiamo esattamente un anno dopo nel settembre del ‘38, il giorno di San Michele Arcangelo. Io ho 24 anni, Gino 27. Mio padre Don Antonio vuole che ci sposiamo ad Alberona. Lui vuole portarmi all’altare personalmente. E lui, il farmacista del paese, l’unica farmacia non la può chiudere. Parenti di Gino arrivano in frotte da vari cantoni della Puglia oltre che da Peschici. Gino è raggiante. Addirittura eccitato. Arriva in abito scuro a bordo di una Lancia Dilambda sfavillante, affittata per l’occasione, debitamente ammaccata sul parafango anteriore sinistro. Ha, con a fianco il fratello Peppino, aggredito a tutta birra la salita dissestata e tutta curve, che da Tertiveri, ai bordi del Tavoliere, porta d’un fiato sui contrafforti della Daunia ad Alberona. Ha evitato bravamente asinelli, mucche, pecore e pastori, che di tanto in tanto gli si parano tranquillamente innanzi lungo la salita, taluno stupito, taluno impaurito, tutti pigri e insonnoliti. Non ha potuto evitare un maialino, che ci ha rimesso le salsicce. E per questo partecipa suo malgrado alle nozze.

Il viaggio di nozze lo trascorriamo, come nei miei sogni di fanciulla, tra Napoli e Venezia. Poi torniamo a Roma nell’appartamento che abbiamo avuto la fortuna di affittare nello stesso condominio di Luisa, sullo stesso pianerottolo, in zona Piazza Bologna. Gino è affettuosissimo con me. Io non ho conosciuto altri uomini all’infuori di lui. E l’educazione ricevuta in casa di Don Antonio e in collegio, a Foggia alle Marcelline, mi ha inculcato un qualche timore reverenziale nei confronti del ‘maschio’. Ma Gino è sempre dolcissimo e paziente. Per qualche tempo mi diverto a organizzare la nostra casa, la prima casa ‘mia’. Poi a marzo di quest’anno nasce Paolo attesissimo. Da me, da Gino, da tutta la famiglia. È stata una nuova occasione di incontri infiniti tra parenti e amici di Gino e parenti e amici miei. Il più elettrizzato è Don Paolo, Papà Paolo: ha un nipotino maschio, e si chiama Paolo come lui! “U fёġġiòulё dё nonnò!” continua a dire, cullando il bimbo tra le braccia con gli occhi umidi di commozione.

Ma gli ‘altri’ eventi covavano, tanto ma tanto più grandi di me, di chiunque; e sconvolgono in un lampo l’esistenza mia, di Gino, di Paolo, e di chissà quanti altri milioni di creature.

* * * * *

Nei giorni in cui Gino e io ci sposiamo, Mussolini e Hitler celebrano a Monaco di Baviera i fasti presenti e venturi dell’Asse. Qualche mese prima l’’anschluss’ ha già annesso l’Austria alla Germania. Qualche mese dopo la situazione prende a precipitare: dapprima Hitler occupa i Sudeti e Mussolini l’Albania, poi Hitler e Stalin si spartiscono la Polonia, poi Hitler invade la Boemia e la Moravia, poi Mussolini inizia a questionare con la Grecia, poi l’Inghilterra e la Francia dichiarano guerra alla Germania, poi Hitler attacca la Francia, e arriva in un baleno a Parigi. Poi il 10 di questo mese Mussolini dichiara guerra all’Inghilterra e alla Francia.

Io ho seguito con grande difficoltà, e trepidazione, quanto viene accadendo. È Gino che mi tiene al corrente degli eventi, con tanto di carta geografica tra le mani, sulla quale mi addita Paesi e aree di operazione. Gino è di carattere mite, è riuscito a tenersi al di fuori dei ranghi delle camicie nere, ha rinunciato alla carriera militare; ma la voce di Mussolini è la voce della Patria, il ciclone Hitler non può passare inosservato a nessuno; e Gino ha mantenuto rapporti amichevoli con alcuni dei suoi ex colleghi militari, e l’atmosfera è impregnata dell’attesa ansiosa di grandi eventi. Mi dice cose e cose.

«Sai, ha detto che spezzeremo le reni ai greci, e ai francesi, e agli inglesi.»
«Certo, dobbiamo aver fatto grossi passi avanti, da quando io ho frequentato l’Accademia.»
«Dio mio, Hitler a Parigi. Di già!»
«Va a finire che qualche mio ex collega passerà il prossimo inverno in Grecia.»
«Noi, in Grecia, d’inverno? Boooh!» Gino dice spesso “ Boooh! ” Vuole dire che è di fronte a eventi troppo al di fuori dei suoi schemi mentali, che assolutamente non capisce. Il 10 di giugno l’Italia dichiara guerra a Inghilterra e Francia, il 12 di giugno Gino riceve dal Ministero della Guerra il telegramma di chiamata alle armi: il 15 di giugno deve imbarcarsi a Napoli per Bengasi.

«Li sbaraglieremo, vedrai. In tre mesi saremo ad Alessandria! Il Mediterraneo è o non è ‘Mare nostrum’?»
«Tu passi l’estate a Peschici con Paolo: l’aria di mare farà bene al bambino; in autunno poi saremo di nuovo a casa.»
«E magari potresti anche buttare giù qualche appunto su quello che succede a Peschici. Così, quando torno, lo rileggiamo insieme, e ci sembrerà di essere stati insieme sempre.»

Il 14 parte un po’ eccitato, un po’ commosso, molto più commosso che eccitato mentre abbraccia Paolo e me. Il 16 di giugno Papà Paolo arriva a casa a Roma. «Jà Bёjanġù, k’amma fa ‘kkuà? A Peskёcё tuttё t’aspèttёnё. Aspèttёnё a te e o’ fёġġjòulё. Jamёcìnnё» Ha fretta. Sa che avrei difficoltà a restare a Roma con Paolo senza Gino. Ma teme che io possa decidere di andare ad Alberona dai miei. E allora mi pressa. Così stamani martedì 18 giugno 1940 all’alba siamo partiti in treno. Prima da Roma a Foggia in quasi undici ore. Poi da Foggia a San Severo in un’oretta e mezza. Poi da San Severo a Peschici con il trenino: «Jà Bёjanġù, k’amma pëġġjà pòurë u tràinë a vapòurë, ke va kjanë: a linëjë elèttrëkë da’ Gàrganëkë jè sfaššàtë e ku sapë kuànnë l’ann’aggiustà!»

Ed eccomi qui.


(2.4 cont.)

 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 27/02/2012 -- 16:43:55 -- vincenzo

L'inizio è buono.Promette bene. Leggerò le altre puntate con molto piacere. Alla fine, spero di scoprire di chi è la firma!

 
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