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13/02/2012

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“VENTI DI GRECALE”: RIFUGIO A PESCHICI - 1° Cap. (1)

Clicca per Ingrandire «Akkёmmùġġjёlё bàunё u fёġġjòulё, ke stёzёkajё!»

Papà Paolo è già sceso in fretta e furia con le due valigie dalla Littorina che ci ha portato a San Severo da Foggia, le ha posate sul marciapiede, e – un ciuffo bianco scompigliato sulla fronte madida – protende, ansioso e trafelato, le braccia nel vano della portiera aperto. Abbiamo fretta. Vorremmo arrivare a Peschici prima di notte. Io non sono mai stata a Peschici. Sull’altro lato del marciapiede il trenino che affronta quotidianamente il tracciato della Ferrovia Garganica, ha aspettato pazientemente l’arrivo della littorina da Foggia – più di tre ore di ritardo – pronto a partire, tossendo faticosamente sbuffi di vapore nerofumo.

Nel breve lasso di tempo in cui ho sistemato per benino Paolo nella sua cesta culla, e mi sono portata con lui sulla piattaforma del vagone, per tenderlo a Papà, il marciapiede è diventato una bolgia. Decine di persone – viaggiatori, parenti, amici, facchini sedicenti, rivenditori di pane, di pomodori, di caciocavallo, carabinieri, soldati, mendicanti, fannulloni, curiosi – si accalcano tra i vagoni della littorina e della Garganica, comparendo e sfumando concitate tra gli sbuffi di vapore e la pioggerellina di giugno; stracariche – chi sulle braccia, chi sulle spalle, chi sulla testa – di valige improbabili stracolme e straripanti, mantenute insieme alla bell’e meglio con cime, spaghi ed elastici allacciati alla buona, di sporte e cestini di vimini con coperte, stracci, o fascette di paglia a custodirne il contenuto; dandosi la voce l’un l’altra, urlando saluti, consigli, imprecazioni, che faccio spesso fatica a decifrare.

Papà afferra la cesta con Paolo, la cinge trepidante forte con le braccia, e mi offre una spalla come appoggio: scendo a mia volta, con l’agilità che mi consentono i miei 149 centimetri di altezza – «sei tutta Nonna Caterina» mi dicevano – la forma fisica che mi accompagna – Paolo è nato tre mesi fa – e l’architettura del predellino disegnata certamente per gli Alpini. Una volta atterrata, Papà mi restituisce Paolo, afferra le valige e, messosi alle mie spalle con le due valige protese lungo i miei fianchi per proteggermi, mi sospinge decisamente verso una portiera della Garganica, ove si accalca una folla ansiosa e concitata tesa a scalare il predellino.

«U fёġġjòulё, u fёġġjòulё» avverte Papà; qualcuno lo sente, qualcuno ci vede, la calca si dirada per un attimo, la folla si apre. «U fёġġjòulё, u fёġġjòulё» ripete più di uno. «Sёñò passàtё», «Akkàumё jè bbellё» si sente da più parti.

Intravedo donne che portano una mano alla bocca e poi la slanciano verso la cesta, come ad accennare un bacio; qualcuno mi prende la cesta dalle mani, qualcuno – mani rozze robuste – mi issa sulla piattaforma – mi sistemo sul sedile di legno con la cesta di Paolo vicino – qualcuno issa dal finestrino le due valige che Papà solleva; poi arriva anche Papà, che si siede di fronte. Io un po’ intimidita, un po’ stupita, un po’ confusa, sorrido a tutti e ringrazio tutti. Poi ancora vocii e calche e trambusti dei viaggiatori in cerca di sistemazione; accanto alla quiete sonnacchiosa annoiata di quanti già in paziente attesa. E poi qualche voce più forte dal marciapiede. E poi il fischio stridente del treno; un altro fischio più lungo e il treno si muove ansimante in un odore acre di vapore e di polvere bagnata.

«Bёjanġù, mo sèimё kuàsё arruàtё» Papà mi guarda negli occhi, sorride, poi mi batte il palmo di uni mano tranquillizzante su un ginocchio: «À vёdè Peskёcё akkàumё jè bbellё!» Sorride a Paolo, che già dorme, gli sfiora una gota con l’indice ripiegato: «U fёġġiòulё dё nonnò!» Poi sorride ancora: «Mo m’addòrmё.» E s’addormenta, il capo reclino sullo schienale.

Il treno, lasciato San Severo, caracolla verso il promontorio del Gargano, solcando i pianori estremi del Tavoliere tra oliveti e frutteti che si rincorrono. Superata la stazioncina di San Marco in Lamis, comincia a inerpicarsi sulle prime pendici del massiccio: il paesaggio diventa carsico brullo. Il vagone, con sedili e mensole in legno che si ripetono per tutta la sua lunghezza, è stracolmo: donne, carnagione chiara, pienotte, camicia abbondante e gonna larga, lunga fin sopra le caviglie, calze scure, fazzolettone annodato intorno al capo; uomini, volti bruni e rugosi, segnati dal sole e dal vento, camicia bianca e gilè, calzoni alla zuava, calzettoni e scarpe pesanti da campagna, baschetto; colori prevalentemente scuri: marrone, grigio, nero; più d’uno con segni di lutto, le donne con le vesti completamente nere, gli uomini con la cravatta, o una cocca all’occhiello del gilè, nera; e valige, e sacchi e sporte d’ogni tipo.

L’aria è impregnata di una mistura di odori penetranti: origano, cipolla, carrube, altro. Un gruppo di donne prega, sciorinando rosari tra le mani: un cantilenare sommesso in un latino che stento a riconoscere, dal quale emerge con monotona periodicità la “Ave Maria, gratia plæna” della solista e il “Santa Maria, Dominus tecum” del coro. Un gruppo di uomini è indaffarato a giocare a scopone, menando le carte in silenzio con ampi gesti delle mani su un cesto rovesciato, tenuto strettamente tra le cosce da uno di loro. Una ragazza viene di tanto in tanto a guardare Paolo, che dorme: lo guarda sorridendo, chiedendomi il permesso con lo sguardo; una volta accenna il gesto solito del bacio; una volta tiene con sé per mano un ragazzo che imbarazzato sembra schernirsi.

Il ‘ciuff-ciuff’ monotono del treno; il cantilenare delle donne; la stanchezza del viaggio - siamo partiti da Roma all’alba -. Socchiudo gli occhi. Mi rilasso. Mi ridesta il fischio ripetuto del treno, che riecheggia lungamente. Sento il treno arrancare, sbuffando faticosamente. Papà dorme ancora. È un uomo piacente, ancora prestante – ha qualcosa più di cinquant’anni – i lineamenti regolari, il naso pronunciato – ricorda il naso di Gino – la carnagione tendente al roseo, i capelli candidi lisci radi. Vedo dal finestrino che stiamo costeggiando a raso una parete rocciosa, bianco rossastra, di una gola angusta e selvaggia.

«‘A nġjanàtё ‘Nġarànё» mormora la ragazza che continua a rimirare Paolo.

Arranca, arranca, il treno supera la gola, arriva sfinito sul breve pianoro al termine della salita, si riassetta orgoglioso, si scuote, fischia contento, e poi si getta a capofitto con allegria senza pudore nella discesa. Ora il vento ha sgombrato il cielo di nubi, il cielo è azzurro, l’aria è nitidissima. A una curva l’Adriatico, d’un azzurro cupo, compare all’improvviso. Sono le cinque o le sei del pomeriggio; il sole è sul mare. “Sulla costa intorno a Peschici” mi tornano in mente le parole di Gino, “il sole sorge e tramonta sul mare: dev’essere l’unico posto sull’Adriatico.” Al largo – ma sembra toccarli – la sagoma di due isolotti, uno scuro di vegetazione l’altro chiaro di roccia; qui sotto – le pendici del Gargano, lungo le quali il treno sembra rotolare, sono come un balcone – prima un lago, dopo un po’ un altro, separati dal mare da un istmo esilissimo.

«Tremëtë» sorride la ragazza, accennando agli isolotti; e poi «Lesёnё» accennando al primo lago; e «Varànё» accennando all’altro.

Blu, blu scuro, violetto. E poi olivi, e olivi, e olivi. Dio mio quanto è bello! Quante volte mi ha descritto Gino questo paesaggio!


(1.4 continua)

 Redazione

 

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