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01/12/2011

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QUEL NATALE DEL ’43

Clicca per Ingrandire Avevo cinque anni. Era il 1943. C’era la guerra, una guerra non voluta dagli italiani, specialmente dalla povera gente. C’era la guerra, ma noi, a Rodi Garganico, non la vivevamo se non per echi: dalla radio (con notizie debitamente filtrate dal regime) e da qualche rara lettera dal lontano fronte. Non rombi di bombardieri, non boati di bombe. In quel momento, poi, sentivo solo la stanca risacca del mare ancora avvolto dalle tenebre del mattino. Ero seduto sul muricciolo che divideva la Ss. 89 dalla sottostante spiaggia. Aspettavo il treno nell’aria fredda pregna di salsedine, il cuore gonfio di gioia per l’imminente viaggio. Vicino a me nessuno tranne mio padre: si viaggiava solo per estrema necessità e, ovviamente, solo se si aveva di che pagarsi il biglietto.

L’unica nostra guerra nel paesino era quella che combattevamo contro la fame, figlia anch’essa della guerra come i lutti e le sofferenze di chi perdeva i propri cari chiamati, allora, non a difendere la patria ma qualche lembo d’Africa che l’Italia era andata a occupare per darsi un’aria di “imperialità”. “Lui”, per affrontare le spese di guerra ci aveva tolto perfino le povere fedi nuziali, compensandoci con la tessera alimentare a razionare pane e pasta. Specialmente il pane che prima di mancarci materialmente ci mancava psicologicamente. Un pane che, se ci fosse stato, sarebbe comunque risultato difficile se non impossibile acquistare, dacché non si sapeva nemmeno più cosa fossero i soldi.

Mio padre, che tra una guerra e l’altra aveva assolto agli obblighi di leva a Roma, attendente di un generale (ovvero della di lui moglie), ed era stato anche inutilmente richiamato per una passeggiata a Derna e Tobruk senza colpo ferire, rimpatriato e di nuovo congedato, gestiva una macelleria da cui riusciva appena a ricavare quel tanto che non facesse morire di fame e di stenti me, mia sorella e la nostra giovane mamma. La carne non ci mancava, ma quella che mangiavamo era la carne che non si riusciva a vendere. Talché, più che mangiare carne, mangiavamo quel piccolo capitale che prima della guerra il poveruomo era riuscito a mettere da parte. Ma, come non si vive di solo pane, così non si può vivere di sola carne. E poiché non voleva assoggettarsi al mercato nero, decise, avvicinandosi Natale, di rivolgersi a un suo zio materno di Apricena che qualcosa di proprio certamente non gli avrebbe negato.

Così, la sera precedente decise di partire e portarci anche me, cosa che quasi normalmente faceva quando usciva dal paese indipendentemente dalla ragione per cui lo facesse. In prevalenza andavamo a Cagnano Varano dove vivevano mia nonna materna e un paio di zii, e dove io stesso ero venuto al mondo. Ma mi portava con sé anche quando si andava per masserie ad acquistare animali da macello. In questo caso, il verbo “portare” aveva tutto il suo valore semantico e si attuava più spesso di quanto non si pensi.

Di particolare memoria è l’episodio legato alle “taverne”. Tornavamo da una masseria nei pressi del Lago di Varano, menando al paesino un gruppo di pecore e agnelli. Era d’estate, in ora canicolare. Caldo penoso, sete incontenibile. Mio padre mi prese sulle spalle e mi portò per qualche chilometro. Poi, a poche centinaia di metri da una grande fattoria, conosciuta appunto come “Le taverne”, si fermò, mi lasciò col piccolo gregge all’ombra di un albero e vi si diresse, convinto che avrebbe ricevuto dell’acqua per dissetarmi.

Dopo circa mezz’ora tornò. Ma nelle mani, se aveva del liquido, era solo il suo sudore. Freddo. Freddo a causa del livore che lo pervadeva: gli avevano negato acqua per un bambino! Fortuna volle che di lì a poco si trovasse a transitare un fortunoso autocarro di un compaesano. Si fermò al cenno di mio padre, confabularono un po’ e poi caricammo le bestiole e noi stessi sull’automezzo e presto potemmo rientrare a casa.

“Vatt ä ccur’cà - mi aveva detto - che crammatín’ âmma jì alla Prucín’. Se facím’ tard u trén’ no nciaspètt’!” (Vattene a letto ché domani mattina dobbiamo andare ad Apricena. Se facciamo tardi il treno non ci aspetta!). E il treno, puntuale, giunse sbuffando e stridendo per arrestarsi e lasciarci salire. Alla locomotiva erano attaccati due-tre carri merci (noi dicevamo “carri bestiame”) che fungevano anche da carrozze per i pochi viaggiatori. Era un’impresa stare in equilibrio: bisognava restare distesi sulle tavole fessurate e sconnesse dell’impiantito. Unico appiglio, una sbarra di ferro a mezz’altezza della porta senza sportelli e senza vetri. In breve, con lanci di greve fumo nell’aria, ripartì.

Mi rintanai in un angolo adagiandomi sui sacchi che mio padre vi aveva sistemato e, curva dopo curva, salite discese fumo aria fredda, superate le stazioni di Ischitella Carpino Cagnano Varano San Nicola Varano San Nicandro, salimmo fino a una sorta di pianorino artificiale dove era stata costruita quella di Apricena Superiore (per distinguerla dall’altra, sulla ferrovia Lecce-Milano). Scendemmo. La stazione, a mezza costa del Monte Ingarano, dominava (e domina) tutta la pianura sottostante che si slarga a ventaglio verso San Severo e Foggia a sinistra e verso il Lago di Lesina a destra. Al centro la cittadina di case biancheggianti al sole ormai alto a oriente.

Dovevamo raggiungerla a piedi percorrendo un ripido e intricato reticolo di sentieri adatti più al transito delle bestie che degli uomini. Ci avventurammo, badando a non ruzzolare giù. Dopo non meno di un’ora giungemmo a casa dello “zio” Filippo. Uno “zio” che vedevo per la prima volta e non avrei mai più rivisto. Era uno dei tre-quattro fratelli di mia nonna paterna (degli altri, dei cui nomi non sono certo, due pare si fossero trasferiti nella vicina Peschici, uno invece emigrato in America; forse esisteva anche una sorella… ma tutto è ancora in via di accertamento) ed era sposato senza prole. Rimasto poi vedovo, sarebbe stato curato da una nipote acquisita che, per dargli assistenza, non avrebbe mai preso marito.

Non conoscevo nessuno dei presenti in quella casa ma furono tutti molto gentili e premurosi con me, coprendomi di coccole fichi secchi noci e anche qualche caramella, cosa estremamente rara in quei tempi di magra. Prima di pranzo, una passeggiata per le vie cittadine prevalentemente acciottolate o lastricate con pietra bianca locale che, meglio apprezzata in questi ultimi decenni e venduta anche come “pietra di Trani”, ha portato lavoro e ricchezza al paese. Strade spaziose pulite piene di aria e di luce fiancheggiate da linde casupole basse ciascuna con un ingresso capace di farvi passare un carretto o una carrozza (in prevalenza “sciarrabbà” nome dialettizzato dal francese “char-à-banc”, per via delle panche attaccate alle facciate interne delle sponde del carretto, adatte al trasporto sia di cose sia di persone). Attaccati ad anelli di ferro fissati ai muri esterni, cavalli e muli intenti a pescare biada dal fondo di sacchetti appesi alle loro teste.

All’ora di pranzo, finalmente a tavola. Essendo domenica, furono servite orecchiette con ragù di carne (cosa di cui non ero certo nostalgico, ma non potevo fare lo schizzinoso), salsicce e altre carni alla brace, vino nero della zona, dolcetti e perfino un “rosolio”, di cui un assaggino fu dato anche a me (i bambini non venivano esclusi da nulla, anche se tutto veniva correlato alla loro età). Finito il lauto e caloroso pasto, c’intrattenemmo in un lungo conversare, dove tenevo più la parte di spettatore che di attore.

Quando fu ora, “zio” Filippo attaccò il cavallo allo “sciarrabbà”, vi caricammo due mezzi sacchi di grano e qualche sacchetto di legumi e dopo saluti altrettanto calorosi ripartimmo per la stazione. Non quella del mattino, inaccessibile, ma quella detta “dell’Ingarano”, posta anch’essa a mezza costa dell’omonimo monte, che in realtà era il casello del passaggio a livello della Ss. 89 sulla ferrovia garganica. Giuntivi, scaricammo il tutto e arrivato anche il treno ve lo caricammo con l’aiuto del nostro benefattore appositamente rimasto per aiutarci. Peccato non averlo più incontrato, peccato non avergli potuto dire “grazie” da adulto!

Dall’Ingarano a Rodi la ferrovia è tutta in discesa e pianura. La locomotiva non compiva sforzi per salire ma come un serpe scivolava, non senza sbatacchiare la propria coda da un binario all’altro, tra stridii di ferri e di freni. Poveri noi, ma soprattutto povero me cui dispiaceva la sola idea di dover dare fuori tutto quel che avevo con piacere messo nello stomaco e che non avevo ancora del tutto digerito! Il treno correva e io cercavo di distrarmi guardando fuori dallo specchio della vuota porta verso i Laghi di Lesina e Varano (alla cui estremità occidentale aveva avuto sede l’idroscalo della Regia Marina, a breve distanza dai resti di un’abbazia benedettina, detta di San Nicola Imbuti, che l’incuria degli uomini farà presto polverizzare) e verso il mare dove nette si stagliavano le Isole Tremiti avvolte nell’aria cristallina del freddo dicembre e in procinto di essere inghiottite dal crepuscolo e dalla notte.

Corri corri, finalmente Cagnano. Mi piaceva il pensiero di poter riassaporare l’aria “natia”, sentirmi più vicino al calore della nonna materna. Il treno si fermò, qualcuno scese e presto scomparve dietro l’edificio della stazione allora parecchio distante dall’agglomerato urbano. Strano: il tempo passava e il capostazione non dava il via. Cosa poteva mai essere accaduto? Mi affacciai. Due persone stavano parlottando col funzionario. Poco dopo si avvicinarono al convoglio e partendo dal primo carro dopo la locomotiva presero a salire. Dopo un po’ li vidi fare capolino davanti alla porta del nostro carro. Salirono, guardarono mio padre me i sacchi. Chiesero i documenti chiesero del contenuto dei sacchi. Mio padre rispose con sincerità, spontaneamente, aggiungendone la provenienza, la vera fonte.

“Non è vero! Tu sei un contrabbandiere! Vieni con noi!” e senza badare a me che mi ero abbarbicato ai pantaloni di mio padre, lo afferrarono per le braccia, lo scaraventarono senza tante cerimonie giù dal carro e lo portarono via quasi di peso. Mio padre (memore di un triste precedente episodio che lo aveva visto ospite per qualche notte nelle guardine dei Carabinieri solo per aver detto ad alta voce, nel macello comunale, in presenza di una “camicia nera”, che non trovava più il portafogli nella tasca posteriore dei propri pantaloni), rimase in silenzio e subì tutto quel maltrattamento che mi faceva male al cuore.

La tremarella che mi aveva invaso alle loro intimazioni e minacce fu presto accompagnata da pianto dirotto, disperato. Cosa avrebbero fatto a mio padre? Dove lo portavano? Sarebbe tornato? Ai miei singhiozzi non badava nessuno, nessuno sentiva le mie invocazioni a mio padre a mia madre a mia nonna soprattutto, che m’illudevo potesse sentirmi da casa sua. Ero solo. Solo con la mia paura e anche col peso della responsabilità di badare ai nostri poveri beni. Stremato, cessarono le lacrime. Mi restò il singhiozzo e cominciai ad avvertire freddo.

La notte buia era appena rischiarata dalla fioca luce della stazione. Il silenzio pareva di tomba e anche la locomotiva taceva, pareva essersi appisolata. Brivido dopo brivido ripresi a invocare mia nonna. Ma la povera donna, anche se mi avesse sentito, non sarebbe potuta correre in mio soccorso, non avrebbe potuto consolarmi. Mio padre mi avrebbe poi detto che la suocera, avvertita da qualcuno che lo conosceva, era corsa in caserma per rendersi conto dell’accaduto. E non penò poco per convincere gli uomini della legge che mio padre non era un contrabbandiere, non era un disonesto, non era un criminale.

Povera nonna! Non era bastato aver perso il marito ancora giovane, mentre in casa c’erano quattro figli da sfamare e una, mia madre, prossima a nascere! Non era bastato nemmeno l’aver perduto la seconda femminuccia della nidiata divorata dalle fiamme attaccate dal braciere al suo abitino della festa, in assenza della mamma che badava alla “puteca” (bottega, negozio; ndr)! Quali prove ancora le erano richieste? Brigò che telefonassero al podestà, che poteva garantire per lei, chiese che telefonassero al podestà e ai Carabinieri di Rodi, chiese che telefonassero ai Carabinieri di Apricena per avere conferma che lo “zio” Filippo era persona fidata, implorò scongiurò pianse. E pianse anche sicuramente pensando a mia madre che a quell’ora avrebbe già dovuto rivederci e invece chissà in che sorta di costernazione o disperazione doveva trovarsi.

Per me intanto il tempo era diventato qualcosa al di là e al di fuori di qualunque dimensione. Rannicchiato sui sacchi, nella mia giacchina di lana cardata filata tessuta confezionata da mia madre, tenevo gli occhi chiusi alle tenebre e andavo immaginandomi il volto di mio padre inquadrato nel vano della porta finalmente libero. Non ricordo se avessi pregato, ma probabilmente non lo feci, imprigionato com’ero nella disperazione e nella paura. So solo che aperti in un certo momento gli occhi, come un’anima pia invocata, comparve effettivamente mio padre. Salì, mi abbracciò, pianse, sicuramente più di gioia che per il rimorso di avermi invischiato in quell’avventura che da uomo dabbene non aveva saputo e potuto prevedere.

Poco dopo la locomotiva, come riavutasi da un lungo sonno letargico, si smosse, si sgranchì, sbuffò e con un fischio di giubilo e quasi di vittoria, ripartì. Verso casa, verso quel guscio di affetti familiari che pareva in quel momento l’unico baluardo contro la guerra la fame e contro tutti gli altri possibili guai…

Enzo Campobasso

 Redazione

 

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