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16/10/2011

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«’A GRAMMÀTËKA PËSKËCIÀNË»: IL DIBATTITO È APERTO

Clicca per Ingrandire Riguardo all’appello lanciato con una lettera al giornale il 9 scorso (http://www.puntodistella.it/Lettera.asp?id=343) da Paolo Labombarda, autore fra le altre opere di “Venti di grecale-Peschici Anni ’40”, riceviamo un interessante approfondimento di Vincenzo Campobasso (collaboratore della TerzaPagina del nostro giornale). I lettori sono invitati alla discussione, in particolare i circa 250 studenti di Scuola Media, Liceo Scientifico e Istituto Tecnico Turistico di Peschici incontrati di recente dall’autore (lunedì 10 e martedì 11 ottobre).


«Per gentile concessione della professoressa Teresa Maria Rauzino, ho avuto il piacere di ‘scorrere’ la grammatica che gli autori Paolo Labombarda, Rocco Tedeschi e Patrizia Ugolotti hanno recentemente varata e presentata sia a Peschici sia a Rodi Garganico. Non v’è dubbio alcuno che, come dice in prefazione l’arcivescovo di Lecce, Domenico D’Ambrosio (peschiciano doc, nonostante la sua lunga assenza dal ridente paesino del Gargano) “fissare in norme e regole qualcosa [di una] lingua […] che si sta smarrendo”, sia ‘opera meritoria’. “Dobbiamo al coraggio che hanno simili persone se i dialetti, di qualsivoglia parte d’Italia, vengono finalmente fissati, per non perderli del tutto”.

«E’ una questione che alcuni anni orsono (al di là dei quattro o cinque da quando sto personalmente cimentandomi per il salvataggio di quello rodiano) discutevo col professor Leonardo P. Aucello di San Marco in Lamis, tra l’altro fautore di una forma estrema di salvataggio attraverso il teatro (cosa che avrebbe aiutato/aiuterebbe la perpetuazione del linguaggio, ma sempre attraverso il tramando verbale dello stesso). Mettere coraggiosamente nero su bianco, questa è vera impresa, che i Nostri hanno compiuta, come s’è detto, meritoriamente. La loro grammatica, valida come base di un suo eventuale insegnamento a livello scolastico, fatte salve le dovute differenze che ineluttabilmente esistono fra tutti i dialetti garganici, è valida anche per questi altri.

«Ciò che personalmente, soggettivamente, non amo in quest’opera è l’aver fissato alcune norme che rappresentano, in un certo qual modo, una vera involuzione dei progressi fatti in tanti anni di storia per passare dai vernacoli, sorti da linguaggi stranieri, a linguaggi-dialetti quanto più prossimi alla nostra lingua nazionale che dal 1887, con Casa Savoia, attraverso la riforma Gentile del 1935 fino alle leggi sull’istruzione obbligatoria emanate dalla Repubblica Italiana, si è cercato di estendere a tutto il territorio. In particolare, gli Autori sovvertono alcune regole ormai acquisite, per tornare ad altre della lingua croata, ceppo d’origine - come sostengono - del vernacolo peschiciano.

«Escludendo /h/, /q/, /w/, /x/ e /y/, in quanto inutilizzati nel peschiciano, pongono alla base di questo dialetto “25 grafemi, 21 dei quali rappresentano fonemi simili in italiano e in peschiciano”, quattro, invece, dissimili. Si tratta del grafema “/ë/, di gran lunga il più ricorrente, [che] rappresenta la vocale neutra (lo ‘scevà’), non riscontrabile nella lingua italiana; del grafema /ġ/ [che] rappresenta la /g/ dura in italiano (la /g/ della parola ‘gatto’); dei grafemi /ñ/ e /š/ [che] rappresentano fonemi corrispondenti a digrammi nella lingua italiana [esempio: pigna, per il digramma /gn/ e scettro per il digramma /sc/]”.

«Sull’uso dello ‘shwa’ (ebraico, corrispondente al francese ‘e-muet’, e-muta) si è ampiamente discusso in passato. Alcuni hanno optato per la /e/ magra, assottigliata rispetto al corpo degli altri caratteri di stampa (vedi Antonio Lombardi, “Vocabolario di Apricena”, e Pitta). Altri (gli universitari sul giornale “La Matricola” e lo stesso Felice Clima*), il semplice segno di elisione /’/, convinti come me che, essendo un segno muto, non debba essere indicato con un vero e proprio grafema. Altri ancora la /ë/, come gli Autori in questione e come testimonia la toponomastica del centro storico di San Giovanni Rotondo.

«Quanto a questo, posso convenire con la Triade di quest’opera che “ogni scrittore scrive naturalmente come meglio gli aggrada”. E’ nel resto che mi sento non poco perplesso. Qual è la necessità di eliminare, oltre all’uso di /w/ (sostituibile con il digramma /ua/ o il digramma /uo/, per rendere i fonemi di parole straniere), /x/ (sostituibile con il trigramma /ics/, sia in caso di parole straniere che di segni matematici), anche quello di /h/ e /q/, ai quali siamo almeno ben abituati? Perché sostituire la /c/ aspra (riconoscibile dalla sua posizione, sempre davanti ad /a/, /o/, /u/), con /k/? Per identica ragione, perché usare /ġ/ per la /g/ aspra, anch’essa riscontrabile dalla propria posizione davanti alle citate tre vocali? Il problema, semmai, si porrebbe per rendere aspro il suono di /c/ e /g/ quando sono seguite dalle vocali /e/ ed /i/.

«Inoltre, io non ho nulla contro l’uso dell’acca: che, chèr’, chèsc’, chi, ghír’ (scrivo in rodiano, e con suono aspro si legge), così come nulla ho contro /gn/ di paggnòtt, p’gnèt’, eccetera. Nulla ancora contro /sc/ di sscém’, ssciaqquà, eccetera. Il problema, per me e per chi la pensa come me, si poneva con l’incontro di /sc/ con una /c/ aspra successiva: l’ho risolto, come tanti hanno risolto (dallo stesso Antonio Lombardi ai sangiovannesi e altri), questa volta, sì, con il ricorso alla /k/: casckavàdd.

«Perché scrivere kuatt, anziché quatt? Perché non scrivere cu, cuà, cuì, anziché ku, kuà, kuì, per indicare quello, quella, quelli? Io credo che i peschiciani, come i rodiani, i viestani e via elencando, ormai tutti scolarizzati almeno al primo livello, non abbiano alcuna difficoltà a tirar fuori dai grafemi italiani i giusti fonemi nel proprio vernacolo. Semmai, qualche dubbio potrebbe venire proprio in presenza di grafemi stranieri (per quanto ormai diffusissimi: vedi il ke per ‘che’ dei giovani nei messaggi sia con cellulari che via internet).

«Ma, ripeto, questa è la mia opinione. Quel che importa davvero, alla fine, è che qualcuno si sia preoccupato di salvare il salvabile del dialetto peschiciano (presente, probabilmente, anche nel mio dna, visto che mia nonna paterna era originaria proprio di tale contesto), come altri lo hanno fatto di altri dialetti garganici, come io stesso sto facendo con la compilazione di un “Vocabbolàrjə du Dialètt Rudjèn’ (“scrìtt accóm’ c’ parl”), parole che non traduco perché tutti i nostri conterranei sono sicuramente in grado di capire, anche se non di leggere correttamente, poiché i suoni del mio dialetto non hanno corrispondenza nel resto del Gargano, esattamente come quelli di altri dialetti non l’hanno nel rodiano.»

Vincenzo Campobasso


*Felice Clima, nato ad Apricena il 1930, avvocato, vive a Foggia. Frequenta abitualmente la sua città d'origine, l'antica ‘domus Precina’, e il Gargano. Scrittore per hobby, ha pubblicato “Apricena. Percorsi, Leggende, microstorie e storie di Capitanata” e “Amazzonia e dintorni”. Membro dell'Associazione ‘Puer Apuliae’-Foggia, collabora con la stessa alla realizzazione di un progetto rievocativo del “Colloquium” federiciano del 1240. Sue opere anche “Apricena e l'imperatore Federico II di Svevia” e “Il processo a Firenze ne la Procina del XIII secolo” (tema per una rievocazione storica di una sentenza emessa ‘apud Precinam’ dall'imperatore Federico II).

 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 18/10/2011 -- 15:51:29 -- vincenzo

Non trovo altri commenti: il "dibattito" è nato morto! Mi spiace tantissimo per Paolo Labombarda (ed i suoi due co-autori). Cosa desumere, dal silenzio di 97 lettori? Che non gliene frega niente? Nemmeno un timido plauso per l'opera compiuta? O i lettori non si registrano per poter commentare? (Non è che sarebbe opportuno rendere visibili, in calce, i commenti, per poter invogliare i lettori ad esprimere il proprio? - Questa, ovviamente, è domanda per Giannini)

-- 18/10/2011 -- 19:43:22 -- il direttore editoriale

Scrive Francesco Granatiero: “Tra il titolo citato e "Grammàt'ka p'sk'cian'" io, per non sapere né leggere né scrivere, preferisco: "Grammàteca peskeciane". La "e" muta c'è in francese, in tedesco, in inglese, e per scrivere David all'italiana (guarda un po'!) si scriveva Davidde. Ma la trascrizione dei dialetti, seppure importante, è ancora l'ultimo dei problemi di una grammatica. Non mi sembra che ci sia nulla da dibattere. C'è solo da studiare un po' di dialettologia. E, se non se ne ha voglia, si lasci agli addetti l'incombenza!"(Francesco Granatiero)

-- 18/10/2011 -- 19:50:08 -- il direttore editoriale

SCHEDA DI FRANCESCO GRANATIERO = Francesco Granatiero è nato a Mattinata (Fg) il 1949 e vive a Rivoli (To) dove lavora come medico di laboratorio. Dopo alcune plaquettes di poesia in lingua, ha pubblicato numerose raccolte di poesia nel dialetto del suo paese di origine: All’acchjitte (1976), U iréne (1983), La préte de Bbacucche (1986), Énece (1994), Iréve (1995), L’endice la grava (1997), Scúerzele (2002), Bbommine. Fiori d'asfodelo (2006). E’ presente in importanti studi e antologie (Dell’Arco, Chiesa-Tesio, Brevini, Spagnoletti-Vivaldi, Serrao, Bonaffini). Dall’86 al ’92 si è occupato del coordinamento editoriale della collana “Incontri” diretta da Giovanni Tesio per Boetti & C. Editori, in cui hanno visto la luce volumetti dei maggiori poeti dialettali del secondo Novecento.

-- 19/10/2011 -- 09:28:25 -- Paolo

Gentile Vincenzo. Gentile Francesco. Ho letto con attenzione i Vostri commenti, dei quali Vi ringrazio di cuore. Loro meritano una risposta articolata che solo nel fine settimana ritengo di poter essere in grado di argomentare. Il dibattito credo non possa considerarsi chiuso. Né credo si chiuderà mai. Ma possiamo certamente chiarirci i rispettivi punti di vista. Per tentare una convergenza, auspicabile pur se non necessaria. Io, Vincenzo, non ti conosco (abbiamo scambiato solo un paio di e_mail); né conosco te, Francesco (ci siamo sentiti solo una volta per telefono). Avrei molto piacere se il dibattito potesse continuare: e Punto di Stella potrebbe esserne il foro. Ciao. A presto.

-- 19/10/2011 -- 23:55:16 -- Paolo

Ciao, Enzo. Leggerò con piacere le tue note sulla grammatica peschiciana. E mi farà piacere constatare se ci hai trovato qualcosa di buono. E mi farà molto piacere se vi troverò cazziatoni e suggerimenti utili per migliorarla. Su “sentenze da dentro o fuori del Gargano” penso ci sarebbe molto da discutere. I fonemi sono naturali. I grafemi sono una convenzione. Che ha senso se sulla loro formulazione convergono le idee di molti. Io ho illustrato la grammatica a 250 ragazzi delle scuole di Peschici. Sono stati carini: non mi hanno neppure lapidato! Anche se sono di Roma.

-- 20/10/2011 -- 03:31:51 -- vincenzo

Caro Paolo. Mi pareva di aver puntualizzato che, in questo campo, ciascun autore è libero di dire la sua e di comportarsi come meglio crede. Le mie perplessità riguardano poche scelte, da voi operate, che vanno oltre l'obbiettività, oltre la mia logica. Ho però lodato - mi pare - il vostro notevole sforzo di salvare il peschiciano (anche se vi siete limitati alla grammatica: la grammatica che viene fatta dalla pratica, come sai, e non viceversa). La mia grammatica si riduce a poche note che faranno parte del corpo introduttivo del mio vocabolario; altre note si troveranno diffusamente presso i lemmi nei quali ho ritenuto opportuno farne accenno ex-novo o di nuovo). Che tu abbia illustrato a 250 ragazzi la vostra grammatica, non mi dice assolutamente nulla: i ragazzi son ragazzi e sicuramente non si mettono a controbattere contro un docente, se non hanno cognizioni di causa. Torno un poco indietro. (CONT.)

-- 20/10/2011 -- 03:33:18 -- vincenzo

Tu dici: “i fonemi sono naturali. I grafemi una convenzione”. La mia convinzione è che i grafemi debbano essere tali da poter essere letti come si pronunciano per via naturale le parole. Mi fermo al solo esempio dello schwa (che tu scrivi "scewa"). Lo schwa non è altro che una e-muta, e-muet (in francese, come mi puoi forse insegnare). Essendo una vocale muta (ma il fenomeno, per il francese riguarda solo la /e/,), io non vedo la ragione per riportarla, dandole poi un segno che suggerisca al lettore di non leggerla perchè muta. Se è muta, è come se non ci fosse. Io non ce la metto. Mi pare alquanto fuori luogo (dal mio punto di vista) il vostro avviso. (CONT.)

-- 20/10/2011 -- 03:38:04 -- vincenzo

A quale espediente deve ricorrere uno che tratti del dialetto rodiano? Io ho pensato bene di omettere la /e/, in alcuni casi, e di sostituirla con il segno di elisione [identico all'apostrofo, ma che apostrofo non è) o della e-capovolta (grafema dell'alfabeto fonetico internazionale, praticamente muto) in altri casi. Non vedo di buon occhio la scelta da voi operata, perchè, psicologicamente, il lettore (specialmente quello che non parla il dialetto che vorrebbe leggere) è portato ugualmente a leggere la /e/, sia che venga sormontata dalla dieresi, sia che venga rappresentata magra. Relativamente alle altre mie obiezioni, dovrebbe bastare quel che ho scritto nel mio intervento (in realtà, mi pare di essere stato esauriente anche per quel che concerne lo schwa). Non posso certo imporvi di modificare la vostra grammatica a mio piacimento. Io ho detto la mia, voi andate per la vostra strada. Ma vi sarà sempre di viatico la mia lode. Ciao. (FINE)

-- 25/10/2011 -- 00:04:56 -- vincenzo

IN RISCONTRO AL COMMENTO DEL DOTT. F. GRANATIERO = Gradirei solo conoscere quando i Grammatici della Crusca, per dire DAVID in italiano, aggiunsero la /e/ finale facendo diventare il nome DAVIDDE. Io so che durante il ventennio fascista, per volontà e decisione di Mussolini, nel vocabolario (e nella lingua parlata) non dovevano essere presenti nomi stranieri e che tutti dovevano, comunque, venire italianizzati. Questo, in ogni caso, non autorizza a non leggere la /e/ finale del nome nel nuovo conio. Quanto alla /e/, ovvero, allo schwa, che esisterebbe, oltre che in francese, anche in inglese e in tedesco, per non ripetere quello che ho già risposto a un amico - inoltrato a Paolo Labombarda - copio-incollo lo scambio di mail con lui (leggi 6 commenti che seguono; ndr). Così finiamo per ingarbugliare tutta la faccenda che dovrebbe, invece, riguardare solo e unicamente il dialetto peschiciano (e quello rodiano).

-- 25/10/2011 -- 00:10:08 -- il direttore editoriale

L’AMICO SCRIVE A VINCENZO CAMPOBASSO = “Caro Enzo, ho letto la tua disputa con Paolo e Antonio sul vostro dialetto. Premesso che io non sono un letterato, né poeta, e tanto meno studioso di dialetti. Visto che mi sono preso la briga di leggere le vostre osservazioni, vorrei dire da semplice lettore che se la /e/ c'è, anche se muta, aiuta il lettore “qualunque” a leggere e comprendere il significato della parola e del brano o della poesia. Complimenti per la tua ricerca e per il tuo impegno.” (V.C. da oltre tre anni sta lavorando a un vocabolario del dialetto rodiano… “che potrebbe essere pronto entro altri tre anni”, come lui stesso dichiara; ndr)

-- 25/10/2011 -- 00:11:13 -- il direttore editoriale

VINCENZO RISPONDE ALL’AMICO = “Caro Mimino. Mi fa piacere che tu sia intervenuto nella nostra disputa. Qui non è questione, comunque, di essere letterato, di essere poeta e altro del genere; è solo una faccenda di attenzione a quel che si dice. Premesso che ho riconosciuto (da sempre e non da adesso) che ciascuno è libero di decidere come trasformare i fonemi (i suoni di ciascuna sillaba di una parola o, anche, le singole lettere dell'alfabeto) in grafemi (ciò che vediamo scritto), perché ciascuno di noi è legittimo possessore delle proprie conoscenze linguistico-dialettali; ho detto che io non metto la /e/ muta, perchè è muta e, poichè è muta, non so come potrei trasferirla da fonema in grafema. Di conseguenza, non ce la metto. Se io metto espressa la /e/ muta, posso beare gli occhi del lettore, ma non favorisco certo la sua mente. Alla sua mente io devo dire che quella /e/ non va letta. (CONT.)

-- 25/10/2011 -- 00:11:47 -- il direttore editoriale

Ma, poiché quel lettore (non indigeno - che, cioè, non parla quel dialetto) è abituato a leggerla nel suo dialetto, avrà difficoltà psicologica a non leggerla nel mio dialetto. Inoltre: nel rodiano - specificamente nel rodiano - non c'è solo la /e/ muta; c'è anche la /i/ (per es.: M'chél'). Se io esprimo lo schwa (e-muta), la parola diventa "Mechéle": cosa che la mia intelligenza (o la mia filosofia del linguaggio) non può non rifiutarsi di accettare. C'è persino (ancorché rara) la /u/ muta. Cosa devo fare? Trasformare anche questa in schwa e farle perdere la sua natura? Io mi rifiuto! “D'altronde, se io uso lo schwa, devo avvertire il lettore che la /e/ è uno schwa e che non va letta. Ora, come do quest'avvertenza, posso dare anche l'avvertenza che, dove il lettore vede un segno di elisione (erroneamente chiamato apostrofo, anche se sono assolutamente identici, uguali), deve leggere la parola solo secondo le lettere che contiene. (CONT.)

-- 25/10/2011 -- 00:12:42 -- il direttore editoriale

Ogni lettera, infatti, è il grafema di un fonema, quindi ha suono proprio. Io non riesco a capire la vostra difficoltà. Difficoltà psicologica, non reale! “Qualcuno è venuto a dirmi che lo schwa esiste, oltre che in francese, anche in inglese e in tedesco. Dimmi tu, che conosci l'inglese sicuramente meglio di me ché con gli americani sei stato a contatto (contro di me che non ci sono quasi mai stato), è vero che la /e/ non si legge? E' vero solo in parte, che io sappia. Talvolta si legge /i/ (es.: excuse - ik'skju:s, nella cui finale non figura nemmeno la e-capovolta), talvolta serve solo per modificare il suono della consonante che precede, allungandone il suono, talvolta si legge tranquillamente (es.: endemic - en'demik), altre volte si legge in modo ancora diverso. (CONT.)

-- 25/10/2011 -- 00:13:10 -- il direttore editoriale

“Per le mute (e,i,u), si potrebbe anche fare ricorso all'unico segno fonetico internazionale, appunto la e-capovolta: taglieremmo la testa al toro e tutti i dialetti sarebbero unificati da questo punto di vista. E' proposta che si potrebbe fare; ma incontreremmo difficoltà a convincere: - coloro che la esprimono (vedi i dialetti campani), con la presunzione che il lettore sappia distinguere le vocali toniche (e leggerle), da quelle àtone (e non leggerle); - coloro che l'assottigliano (anche questo è un messaggio - ma è pur sempre una /e/); - coloro che la rappresentano sormontata da una dieresi (come nel caso del dialetto locale, cioè di San Giovanni Rotondo). “Si finirebbe per ritrovarsi ancora con ‘tot capita tot sententia’. Allora, che ciascun autore resti della sua opinione, relativamente al proprio dialetto! Non morirebbe nessuno! (CONT.)

-- 25/10/2011 -- 00:13:38 -- il direttore editoriale

“Ti devo parlare anche della /e/ in tedesco. E' vero che molte volte è muta all'interno della parola, quando segue la /i/ (es.: viele, fi-le), ma quando in fine parola è segno di plurale, pur non essendo tonica, va letta (stesso esempio di prima; se dovessi non esprimere il suono della /e/ finale, direi fil, cioè esprimerei un singolare, non un plurale). Così come va letta anche quando è preceduta da /i/ (es.: Italien non si legge Italin - sarebbe un errore!). “Ci sono altre cose, ma siccome non le hai trattate, non ti faccio riscontro. Anche tu, Mimino, se non sei convinto della mia filosofia, rimani con quella tua: non mi sentirei assolutamente offeso.” (FINE)

-- 29/10/2011 -- 16:54:35 -- vincenzo

Caro Paolo. Ho letto quel che ti è stato pubblicato su Punto Di Stella (http://www.puntodistella.it/news.asp?id=5200). Ribadisco: io mi sono meravigliato della vostra decisione (anche quella di riferirvi a lingue “che hanno interagito” con il dialetto di Peschici), non vi ho detto che dovete modificare secondo la mia veduta. Rimanete nel vostro. Le spiegazioni del vostro comportamento le avete date. Ma non è affatto vero che voi vi rivolgete a tutti: voi vi rivolgete prevalentemente (se non del tutto) agli studiosi (o, comunque, a persone molto colte). In sostanza, voi suscitate in me l'immagine dei filosofi che, per spiegare il mondo fisico, si agganciano a quello metafisico. Più chiaramente, spiegano il mondo materiale con il mondo extra-materiale, cioè, in definitiva, con la divinità (che nessuno poi veramente conosce). (CONT.)

-- 29/10/2011 -- 16:57:05 -- vincenzo

Io son voluto rimanere nella mia “immanenza”, cioè al mio dialetto, come l'ho parlato (e lo parlo) io, come lo hanno parlato i miei coetanei, mio padre, mio nonno (e anche qualche bisnonno - non mio). Qualcuno ha inventato l'alfabeto fonetico internazionale, cioè ha messo in atto una convenzione (convenendo, anche, di non usare la nostra /h/, che non è stata inventata in Toscana ma era già usata dai Romani, sia pure per motivi diversi da quelli di rendere dura la lettura di una /c/ o di una /g/ (in compenso - o “scompenso” - non avevano la /k/ né altre diavolerie!). Io non ho inventato nulla, ho solo cercato di rendere comprensibile, a chi lo parla (non a chi non lo parla!), il perché di come lo parla. Altre filosofie non fanno parte del mio intento. Avete ragione voi? Ho ragione io? Abbiamo ragione tutti! (CONT.)

-- 29/10/2011 -- 16:57:35 -- vincenzo

Rimane, di vero, una sola cosa: non abbiamo avuto molta gente che si sia calata nel nostro dibattito. Può darsi che tutti siano rimasti affascinati, anzi talmente abbagliati che non vedono la strada, il modo per interloquire, interagire, dialettizzare, pervenire a una sintesi che metta tutti d'accordo! Alla fine rimarremo ben stretti, rinserrati ciascuno nel proprio guscio, ciascuno nella propria filosofia (del “nostro” linguaggio). (FINE)

 
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