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06/03/2011

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QUANDO UNO SI METTE IN TESTA QUALCOSA…

Clicca per Ingrandire «E dunque, ti sei messo in testa adesso di codificare un alfabeto!? L’alfabeto del dialetto Peschiciano! L’alfabeto di un dialetto! Che razzaccia, questi ingegneri! Ma tu, ingegner Marco, ti rendi conto di quello che dici?» Dario, professore emerito di dialettologia alla Sapienza, mi guarda sorridendo sporgendosi da dietro una scrivania affaticata da pile di libri, manoscritti, scartoffie, le braccia appoggiate sul ripiano, gli occhi scrutatori divertiti fissi su di me attraversando lenti spessissime.

«Dai, Dario, io non voglio davvero inventare niente. Vorrei solo sapere, capire quello che esiste, partire da lì, magari riorganizzarlo, e proporre ai peschiciani, tutti, di scrivere nella stessa maniera.»

Aggrotta un attimo la fronte, mentre cerca di risistemare gli angoli spiegazzati di un manoscritto. «Tu, ingegnere, proponi, una dopo l’altra, con la massima disinvoltura, con la massima - lasciami dire - impudicizia, tutta una serie di obiettivi al limite del pazzesco. Innanzi tutto: troverai ben poco da cui partire; ché i dialetti si tramandano generalmente per tradizione orale. Poi: questa cosa a che serve? Che, i peschiciani scrivono? Davvero? Nel dialetto loro? Ma dai! Poi: vuoi convincere gli anziani a adottare un alfabeto del quale non hanno sentito il bisogno per tutta una vita? Poi: vuoi convincere i giovani, in lotta strenua con le interpretazioni della vita e con le tempeste ormonali, a occuparsi di queste bazzecole? Poi, poi, poi... »

«Senti, Dario, ma tu di mestiere fai il dialettologo o lo spaccacazzi?»

«No, questo no! Non me lo puoi dire pure tu! Tu dici quello che mi dice mio figlio! E pure mia moglie!» Ride, come compiaciuto. «Ma, insomma, perchè t’è preso quest’attacco?»

«Ho scritto una storia, te l’ho detto! Anzi, ecco, questa è una copia per te.» Tiro fuori il libro dalla borsa, glielo porgo.

«Un romanzo?»

«L’editore lo chiama così.»

Legge sulla copertina il titolo: «“Venti di grecale” (foto del titolo, focus copertina; ndr)! Eh già, ne hai fatte di veliate tu, in giro per il mondo!» Legge il sottotitolo: «Peschici, anni ’40. Ah, ecco, ci siamo!» Volta la copertina, scorre la dedica: «Ruffiano, ruffiano navigato, eh?» Si rigira il libro tra le mani: sembra sorpreso piacevolmente. «Dai spiffera, ingegnere.»

«Ho iniziato a scrivere questa storia senza accorgermene. Sai - lo vedi, no? - il mondo rotola; tutto cambia velocemente, vorticosamente. M’è venuta voglia di lasciare ai figli una immagine delle loro radici, dei loro bisnonni, dei trisnonni, che non hanno conosciuto, dell’ambiente di allora, che loro non riescono a immaginare. M’è venuta voglia di approfondire; e ho scritto. Ma quant’è difficile scrivere, Dario, proprio difficile! Ma quanto intriga pure, quanto ti prende! E quanto è intrigante descrivere gli ambienti, cercando di condividere con il lettore - ci sarà? - le idee, certo, ma anche le percezioni dei sensi, le immagini, i suoni, gli odori…»

Dario, mentre parlo, sfoglia casualmente pagine del libro: «Immagini? Suoni? Hai mica prodotto un libro multimediale?»

«Un libro elettronico su Peschici? Ma no, no! Immagini, suoni, ho cercato di descriverli con lo scritto. Scrivendo.»

«E tra i suoni hai inserito frasi, espressioni dialettali: ne ho notato qualcuna, sfogliando qua e là.»

«Ecco sì! Come faccio a rendere l’ambiente del paese, dimenticando del tutto il suo dialetto? Non è, il dialetto, l’espressione più immediata, più verace, più significativa dell’anima di un luogo?»

«Invito a nozze, per un dialettologo!»

«Spiacente, Dario, io sono già impegnato.»

Sorride, ammiccando. «Vedo, scorrendo, che qualcosa hai già cercato di capire! Vedo che hai capito, per esempio, il ‘scevà’ (=insignificante; indica l'assenza in una parola di una vocale debole, neutra; il simbolo IPA-International Phonetic Alphabet, alfabeto fonetico internazionale, che ne denuncia la presenza ‘occulta’ è in foto 1 sotto; ndr); vedo che sei innamorato del grafema /k/; che ti sei posto il problema dei digrammi, che…»

«Io ho fatto questo? Io ho capito il scevà? E ho affrontato i problemi dei digrammi? Davvero? Ma che robb’è? Io cercavo semplicemente di ripescare, in qualche anfratto di memoria remota, echi di suoni di voci antiche. E ho cercato di riproporle al meglio. Ché mi sono guardato intorno, per cercare di rappresentare quei suoni per iscritto in maniera decente; ma ho trovato ben poco: alcuni scritti, davvero episodici, un abbozzo di dizionarietto amatoriale, nessun alfabeto di riferimento, nessun abbozzo di grammatica… Di più: soggetti diversi scrivono la stessa parola in maniera diversa; e addirittura lo stesso soggetto con uno stesso grafema - si dice così, vero? - esprime suoni diversi. Una palude, ti assicuro!»

«Tu, ingegnere, dato che ingegnere sei, qualcosa l’hai già capita, magari senza rendertene conto.» Dario - dico tra me e me - sta scaldando i motori: bene! «Tu hai scritto come ti sembrava più appropriato; tu hai capito, magari senza pensarci, che sono le voci, i suoni, quelli che esistono in natura; e che lo scritto, che in natura non esiste, è un’invenzione degli uomini, una convenzione condivisa dalla gente: lo scritto non è il suono, lo scritto è un modello di rappresentazione dei suoni, un tentativo, che riesce più o meno bene.»

«Sì, sì, professore, è così.»

«I linguisti, ingegnere, hanno cercato di codificare i vari suoni che l’apparato vocale dell’uomo è in grado di emettere: sono varie decine; gli addetti ai lavori li chiamano “fonemi”; sono codificati nell’alfabeto fonetico internazionale, che chiamano “IPA”. L’IPA appunto è riconosciuto internazionalmente. Se tu leggi un qualunque vocabolario decente, in una qualunque lingua, tu trovi accanto, in genere tra parentesi quadre - lo hai notato, immagino, - la maniera di pronunciare quello scritto sulla base delle notazioni IPA.»

«Sì, sì, ho notato. E trovo la cosa affascinante. Se esistesse un vocabolario peschiciano fatto così, anche un Maori, in Nuova Zelanda, potrebbe pronunciare termini peschiciani in maniera accettabile! È così, no?»

«Certo, ingegnere, è così. E allora si può capire come tu potresti ricostruire l’alfabeto peschiciano?»

«Beh, comincio a intuire. Aiutami, però: evitami figure meschine.»

«Dai, concettualmente pure un ingegnere ci arriva! Fai conto di avere individuato, chiacchierando con gli anziani del paese, i fonemi del parlato peschiciano. Bene, tu cerchi di rintracciarli allora tra i fonemi riconosciuti dall’IPA. Bene, tu, avendo individuato una lingua di riferimento, potresti descrivere l’alfabeto peschiciano con i grafemi della lingua di riferimento che corrispondono ai fonemi IPA riconosciuti. Elementare, no?»

«Elementare? Elementare descriverlo a parole, il processo che hai descritto. Metterlo in pratica, però! Mentre lo descrivevi, il processo, mi accasciavo sempre di più. Come si fa a cavare tutti i fonemi del parlato peschiciano dalle bocche degli anziani?»

«Dai, tutti! Tutti meno uno va bene lo stesso. Quasi tutti va bene lo stesso. Si può cominciare con quelli che si riesce a individuare e poi eventualmente arricchirli.»

«D’accordo. E come si fa?»

«Beh, scateni una banda di ricercatori per i vicoli del paese, muniti di un microfono, e fai parlare, intervisti gli anziani. E, poi, lavori sulle registrazioni.»

«Sembra un lavoro enorme, e costoso!» Rifletto un attimo. «Aspetta, però! Questo progetto ha senso solo se i giovani del paese se ne appropriano, lo fanno loro. Gli anziani, ahinoi! sono a perdere. Avevo già in mente di cercare di coinvolgere i giovani del paese, gli allievi delle scuole: ora c’è un motivo di più.»

«Ottimo! Va benissimo! E magari con una botta - diciamo - di schiena trovi che qualcuno questo lavoro l’ha già fatto, almeno in parte. Magari un dialettologo, o un amatore, che si è interessato di quei dialetti. Ah, senti, dovrei avere qualcosa da qualche parte che può esserti utile.» Si alza, si avvicina alla libreria, scorre qualche scaffale con il fare del miope; sale su una sedia, scorre un altro scaffale, si ferma con lo sguardo. «Eccolo qua! Eccolo!» Tira fuori un libretto, ci soffia sopra per scacciare la polvere, ci batte il dorso: «Eccolo, ingegnere. Sei fortunato: è un lavoro di Laura. Brava, Laura! Ha fatto una ricerca sui dialetti del Gargano. Prendilo: è tuo!»

Leggo il titolo: “La metafonesi nei dialetti del Gargano”. «La metaché? Tu, professore, mi vuoi male!»

«Coraggio, Marco» (deve vedere che sono sbiancato), «chi sa giocare con le equazioni differenziali non può morire di metafonesi. Daglielo, uno sguardo. Soprattutto alla bibliografia..»

«Sì, sì! Certo!» Non gli debbo apparire molto convinto. «La lingua di riferimento per l’alfabeto, dicevi.» Cerco di riprendermi. «L’italiano, immagino. O il croato? Peschici è stata popolata intorno al mille da una colonia di mercenari schiavoni.»

«Ma sì, certo, l’italiano! Anche se i peschiciani antichi hanno parlato croato, quando hanno cominciato a scrivere lo hanno fatto con i grafemi italiani. Ma tu lo sai che quando l’Italia è stata unificata più del 97 percento degli italiani era analfabeta? Hanno fatto un censimento, i Savoia, allora! Il processo di alfabetizzazione degli italiani, un lungo processo, è iniziato da allora. E tanta gente ha cominciato a scrivere, anche in dialetto, con i grafemi dell’alfabeto italiano.»

«Il 97 percento degli italiani analfabeti nel 1860!? Questo significa che a Peschici non sapevano scrivere più di 50 persone!»

«Sei ottimista, ingegnere. Il 97 percento in tutta Italia! E in Italia c’erano pure Roma, Torino, Milano, Firenze...: il 97 percento in Italia significa - presumo - il 99 percento nei paesi come Peschici. Non saranno stati più di 20, a Peschici: il sindaco, il brigadiere, il medico, il farmacista, il parroco, qualche insegnante...»

«Bene bene! Lingua di riferimento l’italiano, dunque! Almeno l’alfabeto di questa lingua lo conosco!»

«Pensi davvero?» Ride di gusto. «Riflettici, se hai voglia e tempo. Poi ne riparliamo. Adesso ho lezione. Vado a raccontare qualche minchiata linguistica ai giovanotti.»

«Grazie tante per la lezione privata, professore. Quanto devo?»

«Mi vuoi offendere? Le mie lezioni private sono impagabili! Tienimi al corrente sulla evoluzione del tuo stato mentale.»

«Sì, certo. La prossima volta, però, davanti a un’amatriciana da “Teresa la Zinnona”.»

«Grande! Questo è parlare chiaro: si capirebbe in un qualunque dialetto»

Mentre passo sotto la Minerva, tra gli edifici di matematica, di fisica, di chimica, mentre mi riaffiorano alla mente volti di colleghi mai più incontrati, risa di ragazzi, sorrisi di fanciulle, avverto l’arrivo di un sms sul cellulare. È Dario. Leggo: “Giulia Palmiri, Università del Molise, linguista dialettologa. Hanno fatto cose. Contattala!”

---------- ... ----------

La lettura della ricerca di Laura sulla metafonesi dei dialetti garganici mi proietta in uno stato di angoscia profonda. Decido comunque che una visita alla Biblioteca Nazionale di Roma, alla ricerca di qualcuno dei diecimila riferimenti riportati nella bibliografia, è preferibile a qualunque tentativo di suicidio, fra l’altro maldestro. Ci passo tre sabati, alla Biblioteca. L’atmosfera delle Biblioteche mi affascina sempre: sembra di stare in un santuario, con gli astanti silenziosi, tutti assorti in letture, pensamenti, meditazioni, in un’atmosfera rarefatta.

Scorro qualcosa dei Melillo, una famiglia di dialettologi che si trasmette la maledizione del mestiere di padre in figlio; chiedo di dare una sbirciata al ‘Thesaurus’ di Micaglia - doveva essere un bel soggetto, questo monaco peschiciano! Si è messo in testa nel Cinquecento di convertire i croati al cattolicesimo; e, per farlo, ha scritto un dizionario italiano/latino/croato! - mi consentono di accedere a un dvd; leggo qualcosa di Tancredi, di Avolio, di Rohlfs, di Vignuzzi, di Merlo, di Migliorini, di altri. Tra vari rigurgiti di prostrazione. I sabati seguenti preferisco passarli a casa, tra gli olivi. Necessito di un periodo di convalescenza. E lì lavoro meglio.

Paolo Labombarda (1.a parte)


NB. La seconda parte del racconto sarà pubblicata a breve. La tavola con l’alfabero peschiciano corrente è in categoria PERIODICI di CITTÀ GARGANO. In IL SONDAGGIO, invece, il primo dei dieci quesiti proposti dal ricercatore Labombarda. Gli altri nei giorni immediatamente successivi. Siete tutti invitati a rispondere per aiutare i “moderni Eccitati” alla risoluzione delle tante questioni dialettali. (la Redazione)

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