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26/01/2011

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LA SOFFERENZA NON HA COLORE: È SOFFERENZA E BASTA

Clicca per Ingrandire Da domani, "Giorno della Memoria", 27 gennaio (inaugurazione alle 19) al 10 febbraio saranno esposte nella Cripta di San Ciro della chiesa di Gesù e Maria in Foggia le opere di pittura e scultura dell’artista sammarchese Nick Petruccelli incentrate sulla Shoah a ricordare l’olocausto del popolo ebraico. La Mostra, curata da Katia Ricci, visitabile dalle 17 alle 20 (per le scuole: dalle 10.30 alle 12.30), rientra nel quadro delle Celebrazioni per il 5° Centenario di Fondazione della chiesa a ricordare quei Frati che per ben due volte furono cacciati con legge di Stato dal Convento di Gesù e Maria e costretti con la forza ad abbandonare il tempio, in cui operavano con grande soddisfazione della gente, deporre l’abito e trovare una nuova sistemazione sociale.

Ma rientra anche nello Spirito di Assisi, che è Spirito di Amore e di Pace, di cui quest’anno ricorre il 25° anniversario. Con essa si vuole inviare un “messaggio” agli uomini di oggi, per risvegliare le loro coscienze addormentate, per i fatti che avvengono in tutte le parti del mondo, a successione continua, contro i cristiani. Vedere, per capire. Ieri contro gli Ebrei oggi contro i Cristiani. La sofferenza non ha colore, è sofferenza e basta.


DICONO GLI ORGANIZZATORI = Nicola Petruccelli, noto artista di San Marco in Lamis, è di casa nel vicino Convento-Santuario di San Matteo, dove abbiamo avuto modo di conoscerlo e apprezzarlo come artista e come uomo. A lui si devono anche le tre tavole in noce finemente scolpite che incorniciano la nicchia con la Reliquia di San Matteo dietro l’altare maggiore. E il Crocifisso che si trova sul loggiato della Chiesa a rappresentare non tanto la Passione del Cristo Storico, avvenuta venti secoli fa sul Calvario, quanto la Passione del Cristo Mistico, quella cioè che avviene, giorno dopo giorno, da duemila anni a questa parte nelle sue membra: noi. A lui si deve, infine, la grande tavola con lo stemma francescano nel refettorio grande di San Matteo e molti quadri, sparsi qua e là, per i corridoi del Convento.

Ma non solo queste sono le opere di Nicola Petruccelli perché lui lavora, da sempre, per enti pubblici e privati e le sue opere si trovano dovunque, anche dove meno te lo aspetti. Ma chi è veramente Nicola Petruccelli e a quali modelli si ispira? Questo non lo sappiamo dire e probabilmente non lo sa dire neppure lui. A lui, forse, si possono applicare le parole che il poeta Paolo Neruda scrisse di sé: “Se mi chiedono che cosa è la mia poesia, devo confessare che non lo so. Ma se chiedono alla mia poesia chi sono io, lo comprenderanno”. Anche Nicola Petruccelli, forse, potrebbe dire di sé “Se mi chiedono che cosa è la mia arte, devo confessare che non lo so. Ma se chiedono alla mia arte chi sono io, lo comprenderanno”. Una cosa, però, è certa e la si può affermare senza timore di poter essere smentiti: è un artista che ascolta, come ogni vero artista, i desideri profondi del suo spirito, che cerca di portare in superficie e rendere visibili e intelligibili agli altri mediante immagini, simboli e colori.

Un nostro confratello, da noi stimato moltissimo e col quale discutevamo delle più diverse tematiche, padre Amedeo Gravina, lo ha descritto così: “Petruccelli, pittore e scultore garganico, non è figlio di nessuna scuola e non scimmiotta le mode dell’arte corrente. Rifiuta i modelli, non per orgoglio o disprezzo, ma perché è impegnato a tempo pieno a tradurre in simboli un suo mondo interiore popolato di personalissimi fantasmi. Suoi maestri sono il roccioso e selvoso Gargano, che gli offre immagini e simboli, e lui trascrive nelle sue opere; e il suo pessimismo che, pur riscattato sull’orlo della disperazione da un vivo senso cristiano, strazia e fa sanguinare le sue opere”.


IL CONTENUTO DELLA MOSTRA (intervento di padre Angelo M. Marracino) = La Mostra susciterà certamente molto interesse nei visitatori. Già i titoli delle tele e delle sculture sono più che sufficienti per far salire il livello della curiosità: “Residenza della morte”, “La cella dell’inedia”, “Bambini inabili al lavoro”, “Nuovi arrivi al campo”, “Il blocco della morte”, “Propaganda del regime”, “Simboli di morte, “I garzoni della morte”, “Auscwitz”, “I sotterranei”, “I forni”, “Crematorio”, “Nel nulla del mio silenzio ti cerco, Signore”, “Fabbrica della morte”, “Esperimenti aberranti”, “Senza speranza”. Le tele, eseguite con colore acrilico e nitro, richiamano alla mente avvenimenti terribili e spaventosi e trasmettono una vasta gamma di emozioni che vanno dall’amore e dalla tenerezza per le vittime (spesso donne e bambini), alla rabbia, allo sdegno e talvolta al disprezzo per i carnefici, spavaldi e arroganti nella loro ferocia.

Colpiscono soprattutto i volti delle vittime, centinaia, uno diverso dall’altro. Uguali solo per l’angoscia e la pietà che suscitano: gli uomini sembrano tanti poveri “Cristi”, le donne tante “Madonne addolorate” e i bambini tanti “uccellini spaventati” davanti a sparvieri con unghie robuste e becchi adunchi. “Il Lager - ha scritto padre Amedeo Gravina - ha sfregiato i loro connotati umani, ma non è stato capace di spegnere il fuoco della coscienza in quelle pupille semispente. Questo avanzo di uomo scampato all’inferno di Auschwitz (riferendosi a una scultura ricavata da un gradino calpestato e consunto da chissà quante generazioni; nda) se da una parte segna l’epilogo della catastrofe dell’uomo, dall’altra annunzia però il tenue baluginare di un’alba nuova dell’umanità”.

Molti, davanti a queste tele e sculture che ricordano luoghi di orrore e fanno intravedere l’angoscia di persone innocenti e il cinismo sfrontato e provocatorio dei loro torturatori, non potranno trattenere le lacrime. A molti, forse, faranno venire alla mente e ripeteranno in cuor loro le parole che Papa Benedetto XVI pronunziò il 28 maggio 2006, quando visitò il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau: “Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?”. Sono sicuro che questa Mostra risveglierà tante coscienze addormentate e ispirerà a tutti propositi di amore e di pace.


LA SCHEDA - “IL CORAGGIO DI RICORDARE” (di Katia Ricci) = Nick Petruccelli, nato il 1940 a San Marco in Lamis, dove attualmente vive e lavora, fin da piccolo ha fatto svariati mestieri per contribuire all’economia familiare. E’ dovuto anche emigrare, prima in Germania e poi in Australia. Qui, spinto dal fratello Peter, noto artista, di giorno lavorava e di sera frequentava una scuola d’arte. In breve tempo riuscì a impadronirsi di svariate tecniche artigianali, pittoriche e scultoree. Infine, rientrato in Italia, si dedicò completamente all’arte e all’artigianato, rivelandosi particolarmente versatile nell’uso dei materiali (pietra, argilla, legno, metalli).

Il 1980 ha creato nel suo paese un laboratorio artigianale per i giovani, durato dieci anni, con corsi di disegno, scultura e ceramica. Per l’antico Santuario di San Matteo, presso San Marco in Lamis, ha scolpito una serie di pannelli in legno di noce con le storie della vita dell’evangelista. I temi della vasta produzione di Petruccelli, sia che si tratti di pittura o di scultura in marmo e legno, o di assemblaggi di materiali di scarto, sono sempre forti, aspri come pugni nello stomaco. Le sue opere sono come una discesa agli inferi o nelle zone più oscure e indicibili dell’umanità, apparentemente senza riscatto e senza speranza.

Così la serie di opere, ‘Orrori della guerra’, che trattano la violenza, la guerra, il dolore e l’orrore, come la serie pittorica sulla Shoah e sulle Foibe. I colori usati sono quasi esclusivamente nero e rosso, quelli della morte e del sangue che delineano un’umanità ferita e disumanizzata dalla violenza, che rende irriconoscibili i volti e deformate le linee dei corpi. In alcuni dipinti, tra i corpi privi di precisi connotati, appare quello del Cristo Patiens - come in ‘Il blocco della morte n. 2’ o ‘Crematorio n. 2’ - che condivide la sofferenza del suo popolo.

La serie ‘Le fabbriche della morte’, contrassegnate da numeri progressivi, danno l’idea della sistematicità e scientificità della “banalità del male” con cui fu pianificato lo sterminio: pistoni, ruote dentate, gabbie di fili di ferro, mostruosi ingranaggi, triturano corpi, assemblano cadaveri, quasi una catena di montaggio. L’abbondanza dei dettagli, l’ossessiva ripetizione delle svastiche rosse, cupo simbolo di morte, che incorniciano la massa informe dei dolenti, sono il segno che nella rappresentazione di quell’indicibile periodo della storia, l’artista esercita una volontà pedagogica, come di incidere con marchi a fuoco il ricordo, l’immagine di quella barbarie perché non abbia a ripetersi.

E’ lo stesso spirito con cui ho visto insegnanti accompagnare studenti ai campi di sterminio di Dachau o Auschwitz. Non è tanto l’analisi delle cause, del contesto e dei responsabili, ma la contemplazione del dolore, il voler costringere a guardare nell’orrore per farne esperienza, per sentire sulla propria pelle il calore del fuoco devastante, la fiamma che brucia i corpi.

Il percorso catartico prevede la consapevolezza che il male non proviene da forze oscure ed esterne, ma dagli stessi vizi umani: “Il male viene dall’egoismo - afferma l’autore, - dal mettere avanti l’io. Quando un uomo dice ‘io, io, io’, lì si annida la violenza, l’orrore”. E’ un’accusa forte, senza appello: le cause del male appartengono esclusivamente agli uomini, a coloro che si abbandonano allo smisurato desiderio di potere, alla volontà di dominio, garantito dalla brutalità e dalla sopraffazione.

Prerogativa dell’artista, quindi, ricordare e far ricordare.

 sanmarcoinlamis.eu

 

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