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04/11/2010

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LE ATTIVITÀ OFFSHORE IN ITALIA

Clicca per Ingrandire L’incidente che la British Petroleum (BP) ha avuto nel Golfo del Messico oltre sei mesi fa continua a far parlare di sé. Non solo direttamente, causa i danni arrecati, ma anche indirettamente, grazie alle conseguenze che l’infortunio ha avuto sulla regolamentazione delle trivellazioni offshore in tutto il mondo. Non fa eccezione l’Europa, dove Bruxelles ha chiesto ragguagli sulle attuali condizioni del drilling (perforazione; ndr). E non fa eccezione nemmeno l’Italia, che secondo gli ultimi dati della Commissione Ue, è al terzo posto in Europa per piattaforme attive, con 123 unità. Superano il nostro Paese solamente il Regno Unito, 486 piattaforme, e l’Olanda, 181.

L’esperienza della BP, sia mediaticamente sia ecologicamente, ha riportato alla luce i rischi operativi della trivellazione offshore. Ma non bisogna fare di tutta un’erba un fascio e incorrere nell’errore di demonizzare la ricerca petrolifera. Prevalentemente allocate nell’Adriatico, le piattaforme italiane sono piuttosto particolari. Data la conformazione morfologica del luogo in cui sono state radicate, ma date le caratteristiche dei giacimenti da cui attingono, difficilmente pescano a profondità superiori ai 250 metri. Non sono, quindi, come le piattaforme in Norvegia, dove quasi la totalità degli impianti esistenti arrivano a oltre 1300 metri di profondità. Tuttavia, non è questa la sola peculiarità dei siti italiani. A differenza di tanti altri, quelli nostrani sono, come ricorda proprio Bruxelles, fra i più vicini alla costa. Colpa della distribuzione degli idrocarburi nel mare. Eppure, sebbene se a primo acchito possa sembra un pericolo, fuoriuscite o incidenti sono stati molto rari.

L’Adriatico, quindi, è ricco di petrolio? Sì, ma non solo quel mare. La Commissione Ue lo scorso 13 ottobre si è raccomandata con le compagnie petrolifere di mantenere elevati standard di sicurezza in numerose microaree. Due di queste sono in Italia. Da una parte l’Arcipelago Toscano, dall’altra le Pelagie sono state considerate zone protette dall’Unione europea, che ha vietato la trivellazione in tali aree. A rincarare la dose ci ha pensato il WWF, che nello scorso aprile ha scritto una durissima lettera indirizzata al Ministero dello sviluppo economico, nella quale si sottolineava come “Il Mediterraneo, una delle 200 ecoregioni a più alta biodiversità del mondo, è tutt’ora uno dei mari con la più alta concentrazione di idrocarburi dovuti non a disastri ma al cronico sversamento di petrolio effettuato illegalmente dalle navi cisterna. Quasi un quarto delle petroliere del mondo passa dal Mediterraneo”. Immediata la risposta del Ministero, che ha posto l’attenzione sull’importanza specifica della ricerca petrolifera: “Si deve valorizzare il patrimonio dei giacimenti nazionali di idrocarburi con lo scopo di assicurare al nostro Paese una maggiore sicurezza energetica e ai cittadini e alle imprese un costo dell’energia più basso: non possiamo continuare a pagare il 30% in più rispetto agli altri Paesi europei”.

Ma da chi sono gestiti questi impianti? In gran parte da Eni, seguita a ruota da Edison e da altre società minori, come Adriatica Idrocarburi o Ionica Gas. E la loro dislocazione passa dall’Emilia Romagna alla Puglia, passando per l’Abruzzo, con qualche puntata nel Mar Jonio e in Sicilia. Ma, secondo il Ministero di Via Veneto, sono in programma altri 16 siti, questa volta di tipo mobile, gestiti da società come Northern Petroleum, Petroceltic e Puma. Non è detto, però, che i lavori di ricerca e sviluppo non possano essere rallentati da Bruxelles per la paura che l’incubo della Deepwater Horizon possa verificarsi anche nel Mediterraneo.

Nonostante le protesta contro Eni, gestore della maggior parte degli impianti offshore italiani, i progetti vanno avanti. L’obiettivo della ricerca petrolifera continua a essere solamente uno, lo sfruttamento delle risorse energetiche del nostro Paese. Esattamente come compiuto da Londra e Amsterdam, anche Roma sta cercando di implementare le tecniche di ricerca meno invasive possibili nel segmento petrolifero. Non è detto, però, che basti a convincere Bruxelles della bontà dell’operazione.

Fabrizio Goria (Il Sole 24 Ore)


 agienergia.it/

 

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