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30/12/2009

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IL DECLINO DEL FIORE OCCIDENTALE

Clicca per Ingrandire Mi ricordo solo che Roma bruciava. Quello era il declino della civiltà occidentale.
Era natale, e il cielo era coperto da nubi scure come la pece e la terra ghiacciava sotto i piedi dei fedeli. A ogni angolo della strada, ubriachi cinici insegnavano le virtù degli alcolisti, e ogni voce soffusa si perdeva nel frastuono del caos cittadino. Era l’anno dei rumori, non c’era più musica nelle orecchie di noi tutti, solo un costante rosario di lamentele. E la cosa era talmente triste che le masse andavano in cerca della morte anche quando non c’era motivo.

Era l’anno in cui non esistevano più i sessi, uomo e donna erano scomparsi per sempre, c’era solo una grande civiltà di ermafroditi che preferivano ignorarsi. Nessuno parlava, tutti ascoltavano il cantico delle “lamentele”. All’alba di quella che era la metà del ventunesimo secolo cessò di esistere anche la politica. Un giorno, un uomo chiamato “Retto” parlò alla grande folla che si era radunata sotto il male comune e disse: “Ditemi, o voi tutte anime prave, qual bene vi portò la politica?”

Le anime improvvisamente ripresero a pensare e da quel giorno la “ragione” li portò ad autodistruggersi con l’anarchia che li rendeva nuovamente liberi. Era il declino della civiltà occidentale. Era la fine dell’impero. Era l’anno in cui l’intelletto umano si misurava in pollici, era l’anno in cui l’amore era solo un ricordo, era l’anno innominato che nessuno voleva ricordare.

Ed ecco, vidi aprirsi i cieli neri come la pece e dal cielo piovevano libri. Nei libri c’era scritta la verità dei tempi passati, la storia dell’uomo quando era ancora felice. Ma vidi un altro uomo, chiamato “Nerone il Subdolo”, che incitava la folla inferocita e diceva loro di bruciare i libri e abbandonare per sempre i tempi passati. Non più il tempo delle fiabe, non più il tempo dei racconti, non più il tempo della storia umana. Solo il tempo che bruciava ogni ricordo dell’uomo che non era stato in grado di governare il proprio passo.

Era l’anno in cui si usavano più alcolici che benzina. Era l’anno in cui si usavano più droghe e meno cibo. Era l’anno in cui persisteva la grande indifferenza, e non si usavano più i sentimenti. Vidi… ed ecco, un giovane uomo che fuggiva dalle fiamme dell’eternità, urlava il suo disappunto e non cessava la sua corsa. Lo fermai con impeto e gli chiesi “perché fuggi? Il destino di noi tutti è già stato scritto nel libro della vita”. Rispose: “Non fuggo dal mio destino, solo dall’ombra che non molla il mio respiro”. E continuai a osservarne la corsa incessante, fermo sul piedistallo, guardando l’occidente e sognando l’oriente. Era l’anno in cui non c’era beltà. Era l’anno della morte dei poeti. Era l’anno dei vinti.

Rimasi sul promontorio del colle romano e guardai la città bruciare, esattamente come - potei notare - l’umanità che osservava il proprio scempio con totale indifferenza. Poi, anch’io, proprio come il giovane uomo, presi a correre verso oriente. Quando i polmoni cessarono di reggere la mia corsa affannosa, mi trovai su un piccolo trespolo dal quale si ergeva ancora della timida erba, nel cui centro spiccava un fiore.

Sedetti su una roccia per riprendere fiato, poi, un soffio di vento mi portò l’ultimo fiato del fuoco che aveva bruciato Roma. Rimasi ore su quella roccia a osservare il fiore, fino a quando lo vidi appassire sotto il gelo di una umanità che non emanava più calore.

Era natale… e quel fiore appassito fu la cosa più triste che vidi nell’ultimo gemito della mia esistenza.

Michele Marino

 Redazione

 

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