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10/09/2009

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RICETTA CONTRO LA CRISI

Clicca per Ingrandire La crisi che stiamo vivendo (“rectius”: subendo): è una crisi che, anche se ha preso le mosse dal sistema finanziario, non è solo finanziaria; è una crisi che, anche se sta manifestando i suoi effetti più preoccupanti nell’ambito economico, non è solo economica; è una crisi anche etica, sociale e culturale. Su questo argomento si può dire, si è detto e si dirà molto e, senza dubbio, c’è molto da dibattere. Una considerazione per tutte: vi è chi ravvisa somiglianze fra gli antichi flagelli (la peste, il vaiolo…) e l’attuale crisi, soprattutto per quanto riguarda l’impatto sulla vita concreta della gente comune e dei più poveri in particolare. Il sito ufficiale della Chiesa Anglicana contiene una preghiera per l’attuale situazione finanziaria, che comincia così: “Signore, viviamo in giorni turbolenti: in giro per il mondo, i prezzi salgono, i debiti aumentano, le banche falliscono o vanno in crisi, i posti di lavoro svaniscono, e sentiamo minacciata la nostra fragile sicurezza…”. Ciò premesso, è mio profondo convincimento che, se si riesce a far correre il nostro Paese sui binari della valorizzazione del merito, della responsabilizzazione e della sussidiarietà, riusciremo a venir fuori dalla crisi prima e meglio. Mi permetto, quindi, di suggerire qualche riflessione e indicazione concreta e di formulare tante domande.

Primo punto fermo = La crisi finanziaria ed economica, attualmente in atto a livello mondiale, non fa che amplificare i punti di debolezza del nostro Paese: un certo provincialismo unito al campanilismo e alla frammentazione, una proverbiale disorganizzazione, i difetti connaturati ai settori protetti dall’economia, le carenze del settore pubblico, la difficoltà del settore privato a coniugare la fantasia con la concretezza e la competenza, una mancanza di chiarezza che a volte sfuma nell’ambiguità. Inoltre, l’Italia è inserita nell’area dell’euro. Un’area, purtroppo, che: è affetta da grave miopia; non è più capace di decidere in fretta le priorità; è dilaniata da liti del tutto marginali e, sovente, da insulti tra le contrapposte fazioni che, non avendo ancora capito di trovarsi sullo stesso treno, si accapigliano… per un posto in prima classe. Povero Vecchio Continente!

Secondo punto fermo = Il divario tra il Nord e il Sud del Paese è ancora un problema irrisolto. Povera Italia! Il Mezzogiorno, se da un lato presenta sicure potenzialità umane e oggettive possibilità di crescita, dall’altro è indiscutibilmente attardato da pesanti handicap che, “inter alia”, costituiscono un serio ostacolo allo sviluppo dell’attività imprenditoriale e dell’attività bancaria e finanziaria. La crescita di tante imprese del Mezzogiorno si scontra con gravi ostacoli ambientali. Mi limito a citarne due: i tempi più lunghi della giustizia civile e i ritardi nelle infrastrutture. Con riguardo al Mezzogiorno d’Italia c’è bisogno di ragionare con pacatezza e serietà su ciò che è stato fatto e se è stato fatto bene o male, come su ciò che non è stato fatto. È vera, è pienamente vera e condivisibile l’affermazione che il Mezzogiorno ha ormai bisogno di fatti concreti, non di belle parole o di parole che di bello o costruttivo non hanno proprio niente. È vero anche, tuttavia, che i fatti debbono essere fondati su adeguate conoscenze e occasioni come questa - che ci vede oggi qui riuniti a Manfredonia, in occasione della 18.ma edizione del Premio internazionale di cultura “Re Manfredi” - sono preziosi momenti di confronto e di riflessione.

E poniamoci la domanda delle domande: ce la può fare l’Italia a tornare a crescere stabilmente senza il Mezzogiorno, vale a dire “senza una ruota”, come titolano tanti giornali e riviste? Riformuliamo la domanda delle domande: si può pensare di affrontare efficacemente le sfide della globalizzazione con metà del territorio nazionale e un terzo della popolazione che non tiene il passo? E con il riproporsi di una “questione settentrionale”? Se le misure tentate in passato non hanno funzionato, ci si deve silenziosamente rassegnare e attendere o bisogna, invece, ragionare su nuove strade e provare a sperimentarle con determinazione? Paesi con squilibri territoriali forti, come Germania o Spagna, negli ultimi anni hanno fatto progressi significativi combinando risorse locali e nazionali e, soprattutto, coordinando efficacemente governo centrale e governi locali. Possiamo credere che un grande Paese come l’Italia riesca veramente a consolidare il suo sviluppo economico e sociale senza venire a capo, dopo decenni, del problema del Sud?

Terzo punto fermo = In Italia c’è ancora poca osmosi tra ricerca applicata, innovazione tecnologica e rapporti università-imprese. Eppure la ricerca produce conoscenza e l’innovazione la sfrutta per generare vantaggi competitivi. L’ultima edizione di “European Innovation Scoreboard” (Eis 2008) divide i 27 paesi dell’Unione Europea, più Croazia, Turchia, Islanda, Norvegia e Svizzera, in quattro gironi. La prima in classifica è la Svezia. L’Italia figura al 19.mo posto e si colloca nel terzo girone insieme a Spagna, Portogallo, Grecia (che ci precedono), Cipro, Estonia, Slovenia e Repubblica Ceca. La capacità innovativa è una delle priorità strategiche per lo sviluppo del nostro Paese. Se è vero che per l’Italia l’innovazione rimane un cammino in salita, è altrettanto vero che si tratta di un progetto ineludibile, se vogliamo davvero restare nel gruppo delle economie più avanzate.

Quarto punto fermo = A mio avviso, a seguito della crisi finanziaria e economica viviamo in un’epoca in cui si è avverato ciò che un timido ed eccentrico docente di matematica pura aveva previsto nel 1896, nel libro “Attraverso lo specchio”. In precedenza aveva scritto “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Il suo nome è Lewis Carroll. “Nel Regno della Regina Rossa per mantenere il proprio posto, occorreva… come adesso… correre a più non posso; per andare da qualche altra parte, occorreva… come adesso… correre almeno il doppio”. Coloro che sono chiamati a correre in testa al gruppo, come Alice, sono gli imprenditori. Coloro che sono chiamati a far correre il più velocemente possibile gli imprenditori, come la Regina Rossa, sono le forze politiche e della società civile che mi piace definire “illuminate”.

Quinto punto fermo = I rimedi elaborati in sede tecnica da parte dei Governi e delle Banche Centrali sono stati utili e necessari per mitigare gli effetti della crisi, ma sicuramente non sufficienti.

Tutto ciò premesso, sono più che convinto che per sradicare la crisi l’Italia (e non solo) deve seguire una rotta che metta al primo posto la persona, il suo lavoro, la sua libertà di associarsi, la sua voglia di sviluppo e in seconda fila - in conformità al principio della sussidiarietà - lo Stato. Sintetizzo il da farsi in un ideale ordine del giorno (ODG).

Primo punto ODG = Impegnarsi, ovunque, per l’affermazione di una logica meritocratica. E come si fa? Cominciando a non rallentare quelli troppo bravi (studenti, professori, imprenditori, manager, dipendenti, medici…), per evitare che gli altri possano soffrirne. E’ “conditio” necessaria per massimizzare i nostri vantaggi competitivi. In estrema sintesi: la capacità creativa, la dotazione culturale, il gusto della qualità, la consapevolezza della nostra unicità, la capacità di cogliere e soddisfare i desideri irrazionali, la forza della tradizione, la vocazione estetica, lo stile di vita, la flessibilità.

Secondo punto ODG = Accrescere la propensione imprenditoriale. Chi è l’imprenditore? È una persona capace di “creare” valore aggiunto, tanto valore aggiunto, vedendo quasi sempre “il bicchiere mezzo pieno”. L’avvertenza è che il nostro Paese si contraddistingue per l’esistenza di tante PMI (piccole medie imprese; ndr), molte delle quali sono imprese familiari. Qual è il problema più serio che affligge le imprese familiari? E’ il passaggio generazionale (di padre-madre in figlio-figlia). La statistica ci dice che solo il 33 percento delle imprese supera il primo passaggio generazionale e solo il 15 sopravvive alla terza generazione. La causa va individuata nel fatto che il padre aveva tanta voglia di emergere… il figlio o il nipote, di solito, no! Lo spirito imprenditoriale è un’attitudine. Chi ce l’ha innata è sicuramente avvantaggiato. Chi non ce l’ha innata, deve impegnarsi parecchio per acquisirla.

Cosa deve fare chi “da grande” vuole fare l’imprenditore? E’ mio profondo convincimento che per conseguire un simile obiettivo occorrono sostanzialmente tre cose: istruzione, preparazione, determinazione. Provo a spiegarmi. L’istruzione allenta i vincoli economici e culturali che legano gli individui al proprio ambiente di origine. L’istruzione ti fa capire tante cose. L’istruzione consente di superare un problema enorme, vale a dire l’incomunicabilità. È grazie all’istruzione che si comprende il significato di un pilastro ai fini dell’attività di impresa: per ottenere un duraturo successo l’impresa, oltre a sapere e saper fare, deve… farlo sapere. Il nostro sistema industriale è caratterizzato dalla presenza di un numero rilevantissimo di micro e piccole imprese, e da un numero relativamente ristretto di medie e grandi imprese. Le medie imprese non amano essere visibili. Spesso, infatti, sono guidate da imprenditori riservati, che non si aspettano alcun vantaggio da una maggiore notorietà personale e dei propri modelli di gestione. Si tratta di un errore blu, perché la notorietà è essenziale, indispensabile, necessaria per competere nei settori di riferimento del made in Italy. Tutto ciò si impara a scuola!

Con riguardo alla “preparazione”, ritengo doveroso richiamare la valorizzazione del capitale intellettuale, che non è solo capitale umano, ma anche capitale relazionale e capitale organizzativo. Se si lavora presso altre aziende, diverse da quella di famiglia, si allargano le conoscenze, altrimenti si resta nel chiuso della propria fabbrica.

Resta da spiegare cosa intendo per “determinazione”. Utilizzo per farlo la risposta che Julio Velasco (allenatore squadra italiana di pallavolo maschile; ndr) diede qualche anno fa a un giornalista, che gli chiedeva come facesse a scegliere, a parità di tecnica, un pallavolista per l’allora invincibile nazionale italiana. Gli rispose: “Semplice: scarto quelli che hanno gli occhi di bue e prendo quelli che hanno gli occhi di tigre”. Mi permetto di aggiungere che un buon imprenditore, oltre a “occhi di tigre” deve possedere “orecchie alla dumbo”.

Terzo punto ODG = Moltiplicare le iniziative imprenditoriali che puntino alla crescita dimensionale, all’innovazione tecnologica, allo sviluppo di nuove produzioni. Occorre una forte azione di sostegno agli investimenti delle imprese. Sappiamo che con il recente decreto anticrisi sono stati parzialmente detassati gli investimenti in macchinari. È sicuramente una buona misura. Peccato che sia a livello mondiale, sia a livello italiano, la riduzione del carico fiscale sulle imprese si sia, di fatto, interrotta. Nei giorni scorsi tutti i media del nostro Paese hanno dato con grande evidenza la notizia: la crisi impone uno stop alle riduzioni fiscali. È un errore blu. Per dimostrarlo, cito un caso concreto. Si tratta di una media impresa (147 dipendenti) con sede in Puglia, che nel 2007 aveva conseguito un utile ante-imposte di euro 3,1 milioni sopportando imposte (Ires e Irap) per euro 1,4 milioni, con un’incidenza pari al 45,2 percento. Ebbene, nel 2008 ha conseguito un utile ante-imposte pari a euro 1,8 milioni e, quindi, applicando lo stesso “tax rate” (carico fiscale complessivo gravante su una operazione; ndr) dell’anno precedente prevedeva di sostenere imposte per euro 0,8 milioni. Le imposte, viceversa, sono state pari a euro 1,6 milioni, con un’incidenza pari all’88,9 percento.

Ma come è possibile? Come si può spiegare a un imprenditore e a tutti gli “stakeholder” (soggetti portatori d’interesse verso una iniziativa economica; ndr) che a un utile ante-imposte di euro 1,8 milioni corrisponde un carico fiscale di euro 1,6 milioni? Semplice, come se non bastasse l’Irap (imposta assurda per definizione e di fatto), dal 2008 è scattata l’indeducibilità degli oneri finanziari mediante il meccanismo del ROL (riduzione orario lavorativo; ndr). Semplicemente imbarazzante! Se aumenta in maniera così esagerata l’imposizione fiscale, il risultato è più economia sommersa, meno investimenti privati, meno occupazione. Se diminuisce l’imposizione fiscale, il risultato è maggiori investimenti privati e incremento occupazione. Dove voglio arrivare? È presto detto: se aumenta l’occupazione, aumenta la fiducia delle famiglie, si rilanciano i consumi.

Quarto punto ODG = Coadiuvare le PMI con misure adeguate. Per capirci faccio riferimento alle PMI come se si trattasse di un gruppo di biciclette in corsa. Partiamo dalle biciclette tradizionali, quelle senza cambio e coi parafanghi, che non hanno saputo fare innovazione e che, quindi, si sono staccate non riuscendo più a procedere alla stessa velocità del gruppo. E’ di tutta evidenza che abbisognano di politiche selettive (sgravi fiscali per l’innovazione e l’aggregazione) per aiutarle a recuperare la distanza dal gruppo. Ci sono, poi, quelle che hanno saputo ammodernarsi: le biciclette da corsa ultra-leggere, in grado di essere velocissime su strada. A simili biciclette occorre far trovare strada libera (uno Stato più leggero, meno burocrazia, privatizzazione dei servizi) per permettere loro di liberare le energie. Infine, ci sono le mountain bike, a elevato tasso di tecnologia, in grado di inerpicarsi sui sentieri più impervi e affrontare discese ripidissime. Il riferimento va alle cosiddette “multinazionali tascabili”, imprese multilocalizzate e internazionalizzate. Ad esse serve un sistema Paese e un sistema bancario in grado di sostenerle nella presenza all’estero.

Quinto punto ODG = Ripristinare le sane regole aziendali. Invocando la crisi, durante il 2008 e i primi otto mesi del 2009 la valenza di certe regole per tanti operatori economici, tra cui alcune banche, è stata sospesa. Le sane regole cui facciamo riferimento sono: professionalità, trasparenza, flessibilità, qualità. Tali regole comportano che occorre: focalizzarsi sugli obiettivi; far emergere esigenze e implicazioni; reagire rapidamente alle opportunità; soddisfare le aspettative del cliente prima e meglio di altri. La stabilità del sistema bancario, condizione necessaria e sufficiente per lo sviluppo economico, si gioca, in questo particolare momento storico, sulla fiducia di migliaia di imprese bisognose di adeguati e tempestivi finanziamenti, nonché sulla fiducia di milioni di risparmiatori che affidano la gestione dei propri risparmi a operatori professionali, che li investono sul mercato dei capitali… evitando di sottoscrivere “titoli tossici”. Le banche si trovano, quindi, a dover rivedere profondamente il tema della fiducia nel rapporto coi clienti. Per mantenere un clima di fiducia nei confronti dei risparmiatori e delle imprese, le banche hanno un’unica carta da giocare: fare maggiore attenzione agli aspetti di responsabilità sociale nella gestione dell’attività bancaria.

Due parole chiave:
- etica, come convinzione che fare banca significa anche rispettare le regole connesse ai doveri verso azionisti, dipendenti, clienti e collettività, nonché quelle dettate dalla coscienza del management;
- responsabilità sociale, quale scelta etica che comporta il farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni, nonché l’adozione della lealtà quale principio competitivo di base.

E’ sicuramente un fatto positivo l’adesione di tante banche al rinvio delle scadenze dei debiti dovuti dalle PMI, ma le banche possono e debbono fare di più, imboccando la strada di una crescita sana e sostenibile. Una considerazione per tutte. Le banche, sulla base di Basilea 2, tendono a considerare il cliente in termini di probabilità di default (incapacità tecnica di rispettare le clausole contrattuali; ndr), un rischio che si misura con il rating (giudizio capace di sintetizzare la situazione finanziaria di un’impresa; ndr). E’ un errore blu. In primo piano deve esserci non il rischio, ma l’opportunità di business. Se i clienti crescono, la banca cresce. Per amor di verità va anche detto, mancando un’adeguata cultura in tal senso, che le imprese, se vogliono davvero crescere, debbono necessariamente instaurare con le banche un sereno e proficuo confronto, teso a dimostrare in maniera trasparente la validità dei propri progetti industriali e programmi futuri.

Sesto punto ODG = Sviluppare la sussidiarietà, in particolare a livello di PMI. Sono più che convinto che le PMI non possano prescindere da una concezione sussidiaria, che deve esprimersi secondo due dimensioni complementari. La prima dimensione sussidiaria (endogena all’impresa) è la valorizzazione delle persone che guidano l’impresa e di quelle che vi lavorano apportando i loro ideali e le loro relazioni. La seconda dimensione sussidiaria (esogena all’impresa) è legata all’ipotesi che la competizione tra PMI possa essere concepita non in termini di eliminazione dei concorrenti dal mercato, ma come costruzione di significative relazioni sia con altre imprese e strutture associazionistiche, sia con portatori di interessi (azionisti, clienti, fornitori, finanziatori e comunità in senso lato). Il problema di fondo è che, se è vero che esistono tante PMI convinte dell’impostazione sussidiaria, è altrettanto vero che sono molte quelle incapaci di trasformarla in strategie conseguenti. Da una recente ricerca è emerso che la comprensione e la diffusione della responsabilità sociale dell’impresa, dell’etica decisionale e del principio di sussidiarietà non sembrano essere ancora i veri assi portanti del sistema imprenditoriale italiano. Lo ribadisco: è una strada da percorrere. Provo ad esplicitarne i motivi.

Sappiamo tutti che le PMI hanno tre principali carenze da colmare: limitazione di risorse umane, ristrettezza di risorse finanziarie, scarsa cultura d’impresa. Ebbene, a tali carenze la sussidiarietà offre rimedi efficaci e concreti. Per quanto concerne la limitazione di risorse umane diventa essenziale l’investimento in formazione, che permette di valorizzare le persone e la loro professionalità, nonché di responsabilizzare in particolare le figure dirigenziali. Per quanto attiene alla ristrettezza di risorse finanziarie la soluzione consiste nel rivolgersi alle banche fortemente radicate sul territorio, in quanto vicine agli operatori e ai mercati locali e propense a instaurare rapporti di lungo periodo. Con riguardo, infine, alla scarsa cultura d’impresa lo strumento essenziale della sussidiarietà è rappresentato dall’associazionismo, fenomeno che consente alle PMI di esprimere tutte le loro potenzialità.

Ovviamente, il mio pensiero va, innanzitutto, al modello dei distretti industriali: un modo originale di fare massa critica per le PMI del made in Italy. Come noto, il cluster (gruppo; ndr) produttivo può assumere la forma del distretto territoriale o del distretto funzionale. La mia preferenza va a quest’ultimo. Il distretto funzionale è una libera aggregazione di imprese che cooperano in modo intersettoriale in una logica di mutual business. Rispetto ai tradizionali distretti territoriali, il distretto funzionale prescinde da uno specifico territorio e si sviluppa come integrazione dell’offerta di beni e servizi da parte di imprese che svolgono attività complementari o comunque connesse. È la strategia del “catalogo allargato” che, fungendo da moltiplicatore di competenze, può favorire la conquista di quote di mercato grazie, appunto, alla creazione di sinergie tra le imprese.

Lancio un appello: facciamo di tutto, di più, per rivitalizzare i distretti funzionali, puntando su innovazione tecnologica e organizzativa, e su monitoraggio finanziario e fiscale. Sviluppiamo nuovi percorsi metodologici che accompagnino l’emersione di realtà settoriali aggregate, moltiplicando gli effetti e le ricadute delle azioni sviluppate. Una volta conseguiti buoni risultati, condividiamo le soluzioni virtuose che abbiamo adottato a livello nazione, superando l’angusto ambito regionale.

Settimo punto ODG = Coinvolgere i giovani. Nelle Considerazioni Finali del 31 maggio 2008 del Governatore Mario Draghi (Banca d’Italia; ndr), c’è un passaggio che mi ha particolarmente colpito: “Il Paese ha desiderio, ambizione, risorse per tornare a crescere; sa che lo sviluppo è, nel tempo, condizione essenziale della stabilità finanziaria. Ha una storia a testimoniare che non c’è niente di ineluttabile nella crisi di crescita che da anni lo paralizza”. Mi permetto di aggiungere che la ripresa duratura della crescita non è una missione impossibile. Il nostro Paese c’è già riuscito una volta, negli anni Cinquanta, sotto la guida di un grande Biccarese, un grande Economista, un grande Governatore della Banca d’Italia: Donato Menichella. Vi regalo una frase tanto cara a Donato Menichella: “Il futuro nostro, dei nostri figli, sta in noi, in tutti noi”.

La sera del 15 novembre 2008, a Martina Franca, nella Basilica di San Martino, monumento Unesco messaggero di una cultura di pace, ho letto una meravigliosa preghiera di un altro grande Pugliese, un grande Profeta, don Tonino Bello. La preghiera si intitola “Preghiera sul molo”, ma da tutti è conosciuta come “La lampara”. Ne leggo adesso un frammento: “Concedi, o Signore, a questo popolo che cammina l’onore di scorgere chi si è fermato lungo la strada e di essere pronto a dargli una mano per rimetterlo in viaggio”. È stupefacente la richiesta di don Tonino (concedi l’onore di scorgere chi si è fermato lungo la strada…), ma a me convince, eccome se convince. Riflettiamoci insieme. Chi, secondo voi, adesso, è fermo lungo la strada, incapace di proseguire il cammino da solo? Quando penso a qualcuno fermo lungo la strada, io penso ai giovani, oggi mortificati da un’istruzione in certi casi inadeguata, da un mercato del lavoro che sovente li discrimina a favore dei più anziani, da un’organizzazione produttiva che troppo spesso non premia il merito, non valorizza le capacità. E chi sono i giovani? Sono il futuro dell’umanità!

Ebbene, è mio profondo convincimento che dobbiamo fare di tutto, dobbiamo fare di più, per stimolare in tutti, nei giovani in particolare, una creatività più fresca, una fantasia più liberante e la gioia turbinosa dell’iniziativa. Dobbiamo convincerci e convincerli che per crescere occorre spalancare la finestra del futuro, progettando insieme, osando insieme, sacrificandosi insieme. E’ ciò che mi piace definire “la logica della staffetta”, che deve avvenire tra anziani e giovani, tra residenti nel Mezzogiorno e “emigrati” in altre parti del mondo, tra uomini e donne di buona volontà, ovunque siano nati. La staffetta è quella gara meravigliosa (sto pensando alla 4x100 in atletica leggera) che consente a quattro atleti normali di battere quattro campioni. Ci possono riuscire perché ciò che conta è far viaggiare veloce il testimone e per farlo occorre, soprattutto, essere affiatati nei cambi: un frazionista deve cominciare a correre prima che arrivi l’altro e quest’ultimo deve arrivare alla giusta distanza dal primo. Se è, però, vero che quattro frazionisti affiatati possono battere quattro campioni, è anche vero che se cade per terra il testimone, non perde il frazionista che ha commesso l’errore ma l’intera squadra.

Permettetemi di concludere questa relazione, raccontando una fiaba. Una contadina portava l’acqua dal pozzo a casa servendosi di due secchi, ciascuno sospeso all’estremità di un palo che lei portava sulla schiena. Uno dei secchi aveva un buchino, mentre l’altro era perfetto. Il primo perdeva lungo il tragitto la metà dell’acqua, il secondo neanche una goccia. Il primo secchio si vergognava del proprio difetto, il secondo secchio era orgoglioso dei suoi risultati. Un giorno, non si sa come non si sa perché, il primo secchio si fece forza e ne parlò con la contadina. Le disse: “Ti sei accorta che perdo la metà dell’acqua lungo il tragitto”? Rispose la contadina: “Ti sei accorto che ci sono dei fiori dalla tua parte del sentiero e non dall’altra parte? Avendo sempre saputo del tuo difetto, ho piantato dei semi di fiori dalla tua parte del sentiero e tu li hai sempre annaffiati. E quei fiori, bellissimi, li ho portati a casa, rendendola molto più accogliente”.

Morale: se non ci si sente coinvolti in profondità, fin nel profondo della nostra mente, del nostro cuore e della nostra anima (come il primo secchio), se ciò che sta accadendo è percepito come un fatto esteriore ed estraneo, che scorre accanto alla nostra esistenza senza intaccarla (come ha fatto il secondo secchio), tutto risulterà superfluo e vano e continueremo a correre verso “Samarcanda”. Se, al contrario, si passa seriamente: dall’«io», da ciò che accade a me, al «noi», a ciò che riguarda direttamente e indirettamente tutti (come ci ha insegnato la contadina), allora il mondo, anche quello in difficoltà, si accorgerà che su questa nostra povera terra il rosso di sera non si è ancora scolorito.

Francesco Lenoci

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