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05/10/2008

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SAN MICHELE “EPURATO” IN UNA MOSTRA?

Clicca per Ingrandire “Scendere dalla montagna degli angeli” è l’intercalare popolare e colorito di alcune comunità meridionali, e in particolare di quelle garganiche, per stigmatizzare la sorpresa e per definire localmente il “cascare dalle nuvole”. Espressione che tra le brume del Nord è invece declinata come “cascare dal pero”. Una testimonianza, tra le tante, di quanto affondi nell’antica tradizione popolare il riferimento alla Montagna Sacra del Gargano, per essere da oltre 15 secoli lo scrigno del santuario per eccellenza dell’Arcangelo Michele.

Qualche giorno fa Luigi Quaranta si meravigliava dell’assenza di qualsiasi richiamo alla Grotta di Monte S. Angelo, nella mostra iconografica sull’Arcangelo guerriero: “La potenza del bene”, inaugurata a Mestre proprio il giorno di San Michele che si protrarrà fino all’Epifania 2009. Non credo che anche in ambito di culto micaelico sia in atto un processo federalista. E’ una dimenticanza, però, che rimane strana. Che potrebbe tradire misere beghe tra studiosi e ricercatori, ma che speriamo non si riconfermi nelle altre due mostre mestrine dedicate al santo: "Laudamus omnes angelos" di stampe antiche e stampini, e “Devozioni domestiche".

Un piccolo atto di superbia, per rimanere in tema di angeli, o una colpevole leggerezza che in altri tempi, secondo la leggenda relativa all’isolotto francese di Mont Saint-Michel, costò cara allo stesso sant’Uberto (nel 709 vescovo di Avranches). A lui l’arcangelo Michele apparve, chiedendo che gli fosse costruita una chiesa sulla roccia. Il vescovo, reo di aver ignorato due volte la richiesta, si ritrovò il cranio bruciato con un foro rotondo provocato dal tocco del dito dell’arcangelo, che tuttavia lo lasciò in vita. Il cranio forato di sant’Uberto è conservato nella Cattedrale di Avranches, nel sud della Normandia, a perenne monito ed eterna devozione.

Trascurare il riferimento centrale al Santuario del Gargano (V-VI secolo), a lungo motivo e meta di quel ramo della via Francigena, che per fiumi di pellegrini diretti in Terra Santa fu la Via Sacra Langobardorum, è come tarpare le ali alla memoria storica e ad un culto più che millenario. Non guardare più in là dell’orizzonte di Terraferma confina, a livello di “devozioni domestiche”, riti e festa annuale della città che, come altre ben 115 solo in Italia, venera S. Michele come patrono.

Il cammino che lungo l’Appia Traiana portava ai porti di Brindisi e di Otranto, dopo Benevento, si divideva in tre direzioni. Le cosiddette Vie dell’Angelo, che attraverso i valichi dell’Appennino conducevano tutti alla Grotta di San Michele Arcangelo (è stato questo il tema di un convegno dell’Associazione Civita). Oggi in Veneto si dimentica, ma per secoli, ci ricorda Antonio Paolucci, “tutta la Cristianità sapeva che al termine d’Italia, in cima ad una montagna alta sul mare, come la prua di una nave gigantesca, c’era il tempio dell’Arcangelo Guerriero. L’ultimo avamposto dell’Europa cristiana. L’autentico finis terrae”.

Detto questo, la vicenda di Mestre evidenzia, ancora una volta, i limiti di una carente azione di sistema, che da sempre caratterizza i nostri territori. Rimanere abbarbicati alla propria storia e ai suoi consunti blasoni, ed evitarne rivisitazioni e ricostruzioni, sono anch’essi segni di superbia. Lo ha sottolineato il Patriarca di Venezia, card. Angelo Scola, proprio a Mestre, nella sua omelia per la festività di San Michele: “La tradizione è un’esperienza vitale che sa far spazio al nuovo riformulando l’antico”.

Anche per questo, continuare a difendere orgogli di campanile e non prodigarsi per il successo del vicino, si chiami esso Peschici, San Giovanni Rotondo, Lucera, Castel del Monte, Barletta oppure Otranto, farà pur brillare ciascuno di luce propria, ma prima o poi la caduta agli inferi è consequenziale. Sarà bene, allora, cogliere il punto di vista parabolico dalle schiere dei “cori angelici”. Aiuterà ognuno ad essere consapevole dei limiti e delle dimensioni relative. Scendere dalla montagna, e relazionarsi con gli ambiti territoriali adiacenti, può essere l’antidoto all’oblio e al rischio di rimanere comparse di una sceneggiatura scritta altrove. Azioni di concerto, modelli distrettuali, logiche consortili e propensione alla mutualità, saranno le nuove trame di territori che si affacciano sulla frontiera dell’innovazione per tornare ad attrarre attenzioni e trattenere interessi.

Antonio V. Gelormini

 Redazione

 

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